Società

Shein, su TikTok si muove il boicottaggio: i ragazzi sono più avanti di noi

Chi scrive ha trascorso l’ultima ora a confrontarsi con una collega sulle novità di Shein e le offerte dell’imminente Black Friday: abbiamo decantato la qualità di alcuni capi, rilevato la scarsità di altri, considerato i tempi di consegna, di reso. Soprattutto, i prezzi convenienti e le taglie per tutti i tipi di corpo, che nell’era del body positivity – ormai l’hanno imparato tutti – fanno davvero la differenza.

La coscienza ha a un certo punto ha avuto la meglio: se Amazon con le sue consegne rapidissime e le politiche di reso a misura di capriccio si porta dietro nella catena distributiva un sistema di business spesso poco attento alle condizioni di lavoro, e se giù in passato marchi del cosiddetto fast-fashion (e non solo) hanno dimostrato attenzione minima alle condizioni dei lavoratori, cosa fa la differenza questa volta? La risposta ci è arrivata da Tik Tok, dove molti utenti hanno avviato un movimento di boicottaggio di Shein. I ragazzi sono più avanti di noi che da qualche tempo ragazzi non siamo più. Ed è un dannato bene.

Shein è l’app (ma anche il marchio) di shopping online che quest’anno è riuscita nell’impresa di battere pure Amazon nei download negli Stati Uniti. Chi ha figli giovani, chi frequenta i social network come Instagram e Tik Tok (a patto, va detto, che non abbia preconcetti sull’acquisto di vestiti online e magari a poco prezzo) sa che è un marchio onnipresente: influencer che distribuiscono codici sconto, microinfluencer a cui regalano vestiti per pubblicizzarli, gli spacchettamenti (sentite come suona bene la parola unboxing) di fronte alla videocamera dello smartphone. E’ di moda indossare, acquistare e far vedere di aver acquistato su Shein. Anche perché, ripetiamolo, tutti possono permetterselo, ci sono quasi tutte le taglie e i modelli sono super trendy.

Mentre scrivo, l’hashtag #shein su Tik Tok ha circa 200 miliardi di visualizzazioni e la sua storia è incredibile: nessuno ha mai ben capito chi l’abbia fondato, solo dopo molti anni ci si è accorti che i capi sono prodotti in Cina, le informazioni su fatturato e business sono difficili da reperire con chiarezza e pure la pubblicità è di basso profilo nonostante pare arrivi in 200 Paesi. Ha scelto i canali social, ha utilizzato algoritmi super intelligenti per leggere e creare tendenze e ha funzionato. La stima di un valore di 15 miliardi di dollari potrebbe essere raddoppiata o triplicata col boom dell’e-commerce in pandemia. Potrebbe però arrivare il giro di boa. Da qualche giorno tik toker e microinfluencer hanno iniziato a boicottare il marchio e la sua martellante e invadente presenza.

L’input arriva da una indagine della Ong svizzera The Public Eye (aveva già collaborato con Amnesty International nella campagna #PayYourWorkers) che racconta le condizioni di lavoro di chi tesse per Shein attraverso ciò che accade tra 17 fornitori situati nella città di Guangzhou, a nord di Hong Kong, famosa per l’industria tessile. Sono stati intervistati dieci lavoratori di sei stabilimenti in posizioni che vanno dal cucito al taglio all’imballaggio.

Per farla breve: la Ong racconta che i lavoratori vengono impiegati in modo intensivo, arrivano anche dalla lontana provincia della Cina, lavorano 75 ore a settimana quando la legge cinese ne prevede un massimo di 40 e 36 di straordinari al mese. Vengono pagati a pezzo, raggiungono sì anche circa 1.370 euro al mese nei momenti di alta domanda ma lavorano per due. E ancora: piccoli laboratori informali, stipati in condomini senza norme di sicurezza, tra corridoi in cui fare lo slalom tra tessili e carrelli (ricordate l’incendio del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013?) e personale di età medio-alta perché c’è bisogno di esperienza per velocizzare al massimo l’intero processo produttivo.

Le commesse circolano su WeChat, la app utilizzata dai cinesi praticamente per tutto, prevedono consegne di centinaia di pezzi in pochissimo tempo e preoccupano i pagamenti a volte ridotti rispetto al dovuto in un clima di rara consapevolezza da parte dei lavoratori cinesi sulle condizioni in cui lavorano. L’impiego è infatti ritenuto una fortuna se si tiene conto della crisi del tessile che c’è stata a causa del Covid-19 e dello stop delle vendite nel fast-fashion dei negozi fisici. “Chiunque si aspettasse bassi salari nei siti produttivi potrebbe a prima vista rimanere sorpreso – si legge infatti nel rapporto – realizzando abiti per il colosso cinese, si possono guadagnare più di 5.410 yuan al mese, cifra che corrisponde al salario dignitoso di sussistenza calcolato dall’Asia Floor Wage Alliance, una federazione di sindacati e organizzazioni della società civile dei paesi del Sud”. Ma il dato non calcola la mole di lavoro.

Shein ha replicato di prendere sul serio le segnalazioni che arrivano dalla catena di approvvigionamento e di aver chiesto alla Ong di fornire i nomi delle fabbriche per una indagine mirata, mentre ha avviato un’indagine interna.

Ma c’è poco che potrebbe fare davvero a fronte di un sistema che è profondamente sbagliato nel suo complesso. L’unica arma, laddove non riescono ad arrivare governo e controlli, è la consapevolezza dei consumatori e degli utenti. Lo facciamo con la carne, con l’ambiente, con il riconoscimento dell’identità dell’altro. Forse è tempo di iniziare a farlo anche con il lavoro. Chissà che non diventi una moda.