Lavoro & Precari

Basta morti sul lavoro: la mia proposta di legge contro il caporalato industriale

Laila El Harim, Hu Zhifang, Giuseppe Rallo, Giovanni Rossi: quattro lavoratori modenesi uniti da un tragico destino. Ancora nel 2021 non si fermano le morti sul lavoro. Tre-quattro vittime al giorno in media, ogni giorno, tutti i giorni, con picchi quotidiani di sette-otto tragedie. E decine, se non centinaia, di casi letali che sfuggono a conteggi e riepiloghi: una strage continua, infinita, inarrestabile, quella delle morti bianche sul lavoro.

Sì, perché di lavoro e sul lavoro si continua a morire, nelle fabbriche, nei campi e nelle serre, nei cantieri edili, nei magazzini, in mare, su mezzi di trasporto, nelle strutture ospedaliere, per strada. Dietro ciascun numero una persona, una famiglia devastata dalla perdita. Ai familiari e agli amici, che condividono il dolore, posso esprimere tutta la mia solidarietà e vicinanza; però l’umanità da sola non basta: occorre agire e subito. Anche perché i numeri sono in crescita. Gli ultimi dati diffusi dall’Inail raccontano che da gennaio ad agosto 2021 hanno perso la vita 772 lavoratori e lavoratrici dipendenti, mentre sono cresciuti dell’8,5% gli infortuni e del 20% le malattie professionali. Nel 2020 si era arrivati a 1.538 denunce di decessi (4,2 al giorno), compresi quelli correlati al Covid. Nel 2019 le morti furono 1.205, 1.279 nel 2018.

Negli ultimi 14 anni abbiamo avuto 15 mila morti sul lavoro e 10 milioni di infortuni, mentre le sentenze che avrebbero dovuto rendere giustizia alle vittime e ai loro familiari sono solo poche centinaia.

Le morti ci sono perché non si applicano i protocolli di sicurezza, perché alcuni contratti sono meno tutelanti di altri, perché molti lavoratori lavorano in nero senza diritti, perché non si fa abbastanza formazione. E succede anche perché ci sono pochi controlli e soprattutto pochi controllori. I dati resi noti dall’Inail sulla sua attività di vigilanza per il 2019, l’anno che ha preceduto la pandemia, sono allarmanti: circa il 90% delle aziende ispezionate risulta irregolare. E parliamo di appena lo 0,5% ispezionato sul totale, il che fa pensare che la situazione sia potenzialmente ancora più drammatica. Basti pensare che nei primi tre mesi di quest’anno all’Inail sono arrivate 185 denunce di infortunio mortale, 19 in più del 2020.

Le verifiche oggi sono poche perché mancano gli ispettori: parliamo di sole 2.561 unità attualmente impiegate dall’ispettorato nazionale del lavoro (Inl), persone di età media molto alta. Per tali ragioni servono controlli più capillari, più rispetto per i lavoratori e le leggi e un monitoraggio attento del territorio per intervenire laddove urge a tutti i livelli.

La tutela della legalità viaggia in parallelo con la salvaguardia della sicurezza e talvolta della vita dei lavoratori. Le leggi ci sono, ma troppo spesso non sono applicate né rispettate da chi ha il dovere di salvaguardare la salute a norma dell’articolo 2087 del Codice civile, e cioè il datore di lavoro. Per questo motivo, è necessario lavorare soprattutto su una maggiore “cultura della sicurezza” che coinvolga tutti, dal datore di lavoro al lavoratore, dai sindacati alla società civile.

Serve destinare maggiori risorse nei servizi degli ispettorati (ispettori del lavoro e ispettori anti-infortunistica delle Asl) per potenziare i controlli in via preventiva e per fare rispettare le norme. Dare una stretta sui controlli, intensificarli, sarebbe già un primo, importante passo, perché significa verificare che il contratto corrisponda esattamente alle mansioni che il lavoratore svolge, che siano previste le ferie, la malattia, che sia rispettato il diritto ad aderire al sindacato e tutte le tutele figlie di molte battaglie sociali.

Il governo pone massima attenzione al tema e in questo momento si sta indicendo un concorso per ispettori. È necessario, oltremodo, investire in corsi di formazione e addestramento, così come previsto espressamente dal D.Lgs 626/94. Corsi che, a dispetto di quanto talvolta accade, specialmente nelle realtà aziendali più piccole, devono essere effettivamente e seriamente svolti a vantaggio di tutti e del ciclo produttivo. Così come occorre sanzionare più severamente le aziende che non sono in regola con gli standard di sicurezza o ricorrono a subfornitori che violano questi standard. Controlli, ma anche norme più severe in materia di contratti.

Il 23 luglio 2020 ho presentato alla Camera una proposta di legge (numero 2.604) per contrastare il caporalato industriale. Nel testo traggo spunto dalle verifiche degli ispettori territoriali del Lavoro e della Guardia di Finanza per rilanciare la necessità di “intervenire sulla vigente normativa, senza costi aggiuntivi a carico dello Stato”. Una legge necessaria per contrastare comportamenti scorretti in materia di appalti, evitando il realizzarsi di condotte di “dumping contrattuale“, cioè da evitare o ridurre quanto più possibile l’eventualità che si verifichino situazioni di disparità di trattamento contrattuale tra lavoratori che svolgono le medesime mansioni all’interno dello stesso sito produttivo, ma che sono dipendenti di imprese diverse, a causa dell’instaurazione di rapporti di appalto e subappalto, non sempre genuini, spesso fonte di sfruttamento intensivo dei lavoratori e di evasione o elusione delle imposte.

Da cittadina eletta in Parlamento sto svolgendo la mia parte al meglio delle mie capacità e competenze di avvocato prima ancora di parlamentare. Sono intervenuta su varie vicende, da Alcar Uno a Italpizza, in ogni sede: dagli incontri con i lavoratori davanti ai cancelli alle interrogazioni nelle aule della Camera. L’impegno e l’ascolto costanti possono indicare la strada per una svolta in Parlamento, a cui invito tutte le forze politiche a collaborare: basta morti sul lavoro. Il lavoro deve essere quel luogo dignitoso dal quale si torna sempre a casa, dev’essere un luogo di vita e di sicurezza, di diritti e di dignità.

Quello che è successo a Luana D’Orazio, l’operaia tessile di 22 anni che lo scorso 3 maggio ha perso la vita rimanendo incastrata in un macchinario nell’azienda di Prato dove lavorava, ma anche a Laila El Harim, Hu Zhifang, Giuseppe Rallo e Giovanni Rossi, i quattro lavoratori modenesi, ci riguarda tutti. Cogliamo la lezione che questi dati ci offrono e stiamo attenti a non fare altri passi indietro, perché non ce lo possiamo permettere.

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