Lavoro & Precari

Tesla condannata per razzismo: col Jobs act italiano dimostrare licenziamenti discriminatori è difficilissimo

La sentenza della Corte Federale di San Francisco che ha condannato Tesla a pagare 137 milioni di dollari a un dipendente afroamericano oggetto di comportamenti discriminatori da parte dei colleghi in ragione della sua appartenenza razziale offre lo spunto per delle riflessioni che vanno al di là del singolo caso ed anche al di là dell’Oceano. Ovviamente non è da sottovalutare il caso concreto in cui si è riconosciuto un risarcimento elevatissimo a un lavoratore discriminato e sicuramente indurrà l’Azienda a vigilare maggiormente e a non limitarsi a proclami inclusivi che se non seguiti da comportamenti concludenti suscitano il legittimo dubbio che costituiscano solo un’operazione di marketing sempre più diffusa e che utilizza le categorie discriminate per operazioni di facciata che meritano dunque di essere qualificate a seconda dei casi come pinkwashing, rainbowashing o blackwashing.

Ma la sentenza, storica, induce anche qualche riflessione in più rispetto alla situazione nel nostro Paese, sempre più debole nella tutela antidiscriminatoria delle lavoratrici e dei lavoratori e, specularmente, poco propenso a varare normative che contrastino le discriminazioni a monte, laddove sorgono, quindi nella società civile che è lo specchio di quanto accade nel mondo del lavoro.

È evidente che legislatore, associazioni datoriali e – va riconosciuto – il sindacato per la parte che dovrebbe competergli, condividono, pur con la necessaria graduazione, la responsabilità della situazione.

Non si può dimenticare che le leggi di controriforma che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio hanno via via privato le lavoratrici e i lavoratori di importanti strumenti che proteggevano dai licenziamenti discriminatori (e conseguentemente dai comportamenti in tal senso). È pur vero che da un punto di vista meramente formale il licenziamento discriminatorio rimane sanzionato con il reintegro della persona licenziata ma è evidente a chiunque si occupi a vario titolo di diritto del lavoro che le riforme succedutesi nel tempo e culminate nel famigerato Jobs act hanno indebolito la tutela dai licenziamenti privi di giusta causa non prevedendo più il reintegro ma solo (salvo rari casi) il risarcimento economico: questo ha fatto sì che oggi per attivare la tutela cosiddetta reale contro i licenziamenti discriminatori è necessario dimostrare l’esistenza della discriminazione mentre in passato era sufficiente rientrare nella categoria più ampia della assenza di giusta causa: ed è risaputo che dimostrare la discriminazione è altrettanto o forse più complesso che dimostrare il mobbing, fattispecie complicatissima da provare in giudizio.

Riguardo ai datori di lavoro accennavo prima al fatto che la responsabilità sociale delle imprese richiederebbe non soltanto dei comportamenti omissivi (e quindi di non essere attori diretti della discriminazione) ma comportamenti attivi volti alla piena inclusione e di forte contrasto alle discriminazioni comprese quelle indirizzate da lavoratori e lavoratrici verso colleghe e colleghi. Ma, appunto, spesso questo non accade e le politiche antidiscriminatorie durano il tempo di una campagna di marketing o di uno spot. Il caso di Tesla è emblematico da questo punto di vista.

Il sindacato, infine, pare aver preso in carico alcune fattispecie discriminatorie (per genere, per etnia, per colore della pelle) e meno altre (penso a orientamento sessuale e identità di genere, soprattutto relativamente alle persone in transizione che subiscono prima ancora della discriminazione sul lavoro quella nell’accesso stesso al lavoro). Sarebbe utile se delegate e delegati nei posti di lavoro venissero formati da subito sul contrasto a tutte le discriminazioni in modo da non sottovalutarle, intercettarle laddove nascono, intervenire prontamente sulla parte datoriale e, ultimo ma non ultimo, essere percepiti da chi subisce discriminazione come interlocutori affidabili.

Così spesso non è: sarebbe utile invece che la fattispecie discriminatoria venisse percepita come una questione di salute e sicurezza sul lavoro quale è (intesa questa categoria come benessere lavorativo e non come mera assenza di patologie) e diventasse quindi oggetto di attenzione anche da parte dei rappresentanti – aziendali e dei lavoratori – per la sicurezza.

Resta infine da osservare amaramente che se si attribuisce allo Stato il compito di dire parole chiare contro la discriminazione creando così il contesto nel quale operare, la penosa vicenda della legge di contrasto alle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere – la cui discussione si trascina ormai da tempo immemorabile senza arrivare all’approvazione – non depone affatto bene in questo senso.