Società

I casi di plagi e abusi sul lettino di Freud sono purtroppo sempre difficili da dimostrare

Il terribile servizio de Le Iene (andato in onda nel 2018, ndr) relativo ad uno psicoterapeuta accusato di aver abusato sessualmente delle sue pazienti ripropone la questione del plagio nel setting psicoterapeutico. La possibilità di incontrare lestofanti seduti sul lettino di Freud è purtroppo un dato ampiamente documentato: basti ricordare il durissimo Libro nero della psicoanalisi o il più equilibrato Al di là delle intenzioni. Etica e analisi dello psicoanalista Luigi Zoja.

Come analista non posso che provare rabbia per queste testimonianze che, nella loro crudezza, svelano tuttavia un dato reale che anche io ho conosciuto sulla mia pelle: chi va su un lettino oggi non ha precise garanzie di terzietà. Nel campo della psicoterapia, se una cura si inceppa o deraglia arrecando danno al paziente il luogo deputato a portare le proprie rimostranze è anzitutto l’Ordine di appartenenza del professionista.

Valutare un danno patito in seduta è tuttavia un compito non semplice. Esistono da un lato valutazioni che si fondano su dati oggettivi, tangibili e dimostrabili: violenza fisica (come nel servizio suddetto), violazione della privacy, disonestà fiscale. Più arduo è il provare che alcune parole malmesse abbiano arrecato nocumento al paziente. Questo perché l’analisi è un officina nella quale tutte le viti della macchina vengono allentate quel tanto che basta perché il guscio si schiuda e si possa giungere all’anima del motore. Ecco perché gli errori, volontari o meno, si riverberano gravemente sull’intera struttura. Danni difficili da provare, dicevamo.

Immaginiamo che un ragazzo omosessuale chieda un aiuto professionale per lenire anni e anni di sfottò e derisioni del paese, nel corso dei quali ha resistito all’odio della gente verso il suo orientamento sessuale pagandolo con una forte depressione. Nel malaugurato caso incontri un clinico omofobo o che poco abbia indagato le sue questioni profonde relative al sesso, che lo apostrofi con frasi quali “devi guarire”, può andare incontro a una devastazione irrimediabile, ritrovando in seduta quegli strali omofobi che lo hanno precipitato nel male oscuro. La letalità di alcune parole è spesso indimostrabile proprio perché “verba volant”.

Chi non ricorda l’analista Moretti de La stanza del figlio che, irritato perché il paziente Orlando con un ritardo ha fatto sì che lui non fosse vicino al figlio nel momento della disgrazia, gli scarica addosso una rabbia feroce e livida colpendolo nel suo punto più debole? Lacan ha scritto che “se si trascurasse quell’angolo dell’inconscio dell’analista, ne risulterebbero delle vere e proprie zone cieche, da cui conseguirebbero eventualmente nella pratica fatti più o meno gravi e incresciosi: misconoscimento, intervento mancato o inopportuno, o persino errore”.

La testimonianza di “Sara”, davanti ai microfoni di Nina Palmieri de Le Iene, illustra come il suo caso non sia “semplicemente” la storia di un abuso perpetrato da chi è privo di limiti morali, il che basterebbe per ascriverlo nella categoria dei crimini, ma costituisce quella catastrofe aggiuntiva nella quale piomba chi ritrovi in un luogo di cura la riproposizione di ciò che stava cercando di “attenuare”. Infatti, Sara ha chiesto aiuto a un terapeuta perché doveva prendere le distanze da un padre violento, e lì ha ritrovato quella violenza che le aveva segnato la vita. Ho indagato a fondo questo tipo di trauma avendolo vissuto in prima persona.

In uno dei miei diversi percorsi formativi, mille anni orsono, ebbi la tragica sfortuna di incappare in una terapia malevola e raffazzonata che ebbe su di me conseguenze gravi: attraversai una profondissima depressione che invalidò non poco il mio essere e generò seri problemi cardiaci che ancora, purtroppo, porto con me. Quando mi rimisi in piedi risuonava acuto il silenzio della cornetta muta ed il rumore della fuga. Anche io, come la protagonista, mi ritrovai solo, abbattuto e deciso a testimoniare l’impossibile, non senza una e-mail che paventava azioni legali qualora avessi continuato a chiedere conto di un trattamento invalidante e alquanto costoso.

Ma non potevo provare nulla, erano solo parole. Dunque capisco la sofferenza della ragazza costretta a rivolgersi al Le Iene per cercare di uscire da quell’asfissia fatta di vessazione e chiusura. La smorfia di dolore che ogni mattina mi accompagna, quando mi alzo con mia figlia e sento i battiti del mio cuore rimasto offeso, è una ruga assai più bella del ghigno beffardo di chi, facendosi la barba, sa di averla fatta franca.

La mia scommessa tuttavia non è sulla sopravvivenza. Sul breve termine, chi fugge ha vinto, come ha fatto anche il dottor Abdulstar. Ma sul lungo termine deve prevalere il senso etico sulla perversione. Il coraggio di tenere il proprio posto contro la facile scappatoia del darsela a gambe. Per questo noi che ci occupiamo di salute mentale dobbiamo essere i primi, i più rigidi e rigorosi nel tenere alta la guardia verso queste cellule cancerose che infettano il lavoro dei tanti colleghi che, ogni giorno, si dedicano al sostegno dell’individuo camminando sulla retta via segnata dall’etica.

Lacan ha scritto: “L’analista, dico, da qualche parte, deve pagare qualcosa per reggere la sua funzione. Paga in parola, paga con la sua persona. Infine bisogna che paghi con un giudizio sulla sua azione. È il minimo che si possa esigere”.