Scienza

Green pass sì o no? Il problema non è questo ma trovarci a discuterne dopo un anno e mezzo

La recente decisione di Macron di estendere il cosiddetto green pass – il certificato verde per l’avvenuta vaccinazione – anche ai ristoranti e mezzi di trasporto ha scatenato innumerevoli reazioni da parte del mondo politico e dell’opinione pubblica. Alcuni politici si schierano a favore di tale scelta, mentre altri sollevano problemi di vario tipo, dalla privacy alla libertà personale.

Con la diffusione della variante Delta in Europa e nel Regno Unito si teme di dover affrontare una nuova ondata di contagi. Paesi come la Francia e l’Italia sembrano affidarsi quasi esclusivamente alla capacità della campagna di vaccinazione di evitare incrementi rapidi di ospedalizzazioni e decessi Covid-19. Il green pass s’inserisce in questo contesto: aumentare la percentuale di vaccinati nella popolazione attraverso alcuni incentivi o restrizioni comportamentali e tentare di ridurre il più possibile la forza dell’associazione tra contagio e mortalità.

Ma il dibattito “green pass o non green pass” non è la questione più importante da discutere. Il più grande problema è chiedersi perché, dopo un anno e mezzo dallo scoppio di questa crisi sanitaria, non si è ancora sviluppata una strategia preventiva a lungo termine contro questa e future pandemie. E’ incredibile non si sia ancora riusciti a capire che una pandemia va affrontata con strumenti epidemiologici e preventivi, mentre la vaccinazione di massa è solo uno degli interventi per contenere il coronavirus.

La letteratura scientifica sull’argomento non lascia spazio a grandi dubbi: chi vuole davvero combattere il Sars-CoV-2 necessita di un sistema di prevenzione basato sulle strategie che hanno permesso ai paesi più virtuosi di proteggere salute e economia allo stesso tempo. Queste strategie, lo si ripete da marzo 2020, sono testare, tracciare e isolare in modo tempestivo investendo in tecnologie di sorveglianza epidemiologica territoriale.

Uno degli errori letali del nostro paese e di molte altre nazioni industrializzate (es. Regno Unito, Stati Uniti, Svezia, Francia, Spagna) è aver scambiato una pandemia per un problema medico. Ma come? La pandemia Covid-19 non è forse un evento di natura medica? Sì e no. Più no che sì. La pandemia è un problema di salute pubblica, o meglio salute globale e va combattuta con teorie, tecniche e strumenti della salute globale. La guerra al virus necessita di un approccio preventivo e di popolazione, sostenuto da attività capillari di sorveglianza epidemiologica per l’identificazione e gestione precoce di focolai. Queste attività scongiurano impennate di contagi, decessi e costosi lockdown. Pensare di contenere il virus investendo tutte le risorse prima in assistenza sanitaria e posti letto in terapia intensiva, poi nei vaccini, significa continuare a fallire il compito di anticipare il virus invece di inseguirlo. Lasciar diffondere il virus durante una campagna di vaccinazione crea inoltre il rischio di nuove varianti, sempre più difficili da contenere e nei casi peggiori resistenti ai vaccini.

La battaglia contro il coronavirus nel territorio richiede un approccio high-tech. Come spiega uno studio pubblicato su Science, un sistema di allerta precoce Covid-19, capace di armonizzare flussi di dati, è essenziale per identificare e gestire futuri focolai. La combinazione di dati sanitari e comportamentali geo-referenziati può aiutare a identificare cambiamenti temporali della pandemia settimane prima dell’osservazione dei contagi. Inoltre, preziosi dati di mobilità, che potrebbero essere condivisi da aziende come Google, Amazon e Facebook, se combinati con altri dati più sofisticati a livello epidemiologico, possono fornire informazioni tempestive e fungere da “termostato” in un sistema di riscaldamento o raffreddamento, capace di guidare l’attivazione o il rilassamento di interventi preventivi mirati e localizzati ai soli focolai.

La pandemia ha messo a nudo in modo palese il vuoto di competenze in epidemiologia e salute pubblica del nostro paese, ma ancora di più la scarsa importanza assegnata a queste discipline dai governi anche di nazioni molto avanzate da un punto di vista scientifico come il Regno Unito e gli Stati Uniti. Pensare di continuare a trattare la salute globale come una materia ancillare e lasciar gestire una pandemia a chi non si è mai occupato a tempo pieno di epidemiologia e prevenzione si paga a suon di morti. Se un bravo clinico può curare le malattie di singoli individui, un capace epidemiologo esperto di salute globale può salvare la vita a milioni di persone.