Calcio

Europei 2021 – Tiri Mancini | Italia-Austria è una saga: la prima volta finì 5-1. E non c’entra solo il calcio

Dunque ci tocca l’Austria. La prima volta che supera un turno agli Europei, non vinceva una partita in una fase finale da 31 anni. E’ comprensibile, quindi, che sia al settimo cielo per essere approdata agli ottavi di finale. La battuta è scontata. Ma ad essere battuta, la prima volta che la squadra italiana incontrò quella danubiana, fu l’Italia. Finì asfaltata 5 a 1.

Erano le sette di sera del 3 luglio 1912, un mercoledì di 109 anni fa, nel torneo di consolazione dei Giochi Olimpici di Stoccolma. La squadra asburgica era guidata dal mitico Hugo Meisl, che dopo la Grande Guerra sarà l’artefice del celebre Wunderteam, la squadra delle meraviglie, forse la più forte del mondo, e che soprattutto porrà le basi della cosiddetta “rivoluzione danubiana”, un nuovo spettacolare modo di concepire il gioco coniugando il “sistema” classico inglese (palla avanti e velocità) con il “metodo” italiano, ossia marcatura ad uomo e anticipo: possesso di palla prolungato, interscambio di posizioni (per non dare riferimenti precisi agli avversari), raffinate qualità tecniche dei giocatori, creatività. Non vi ricorda qualcosa? In fondo, Mancini attinge un po’ a questo modo di giocare…

Quella sera del 1912, all’Olympiastadion di Stoccolma si disputa la semifinale del torneo calcistico di consolazione. L’Italia schiera un undici assai giovane ed inesperto. Il regolamento olimpico imponeva dilettanti in campo, quelli italiani avevano un’età media di 21 anni, 1 mese e 17 giorni. Li allena Vittorio Pozzo, all’inizio della sua fortunata carriera.

La Belle Epoque è agli sgoccioli. Vienna sta vivendo il canto del cigno della sua straordinaria e lunga stagione culturale, in cui lo sport ha una sua dignità e il calcio grande popolarità. Un appassionato è Franz Kafka. Un altro, Umberto Saba. Entrambi, sudditi dell’Impero austro-ungarico. Entrambi, ebrei. Orgogliosi che nella capitale dell’immarcescibile Francesco Giuseppe ci sia un club che sfavilla, il leggendario Sport Klub Hakoah, un circolo sionista fondato nel 1909 dal dentista Ignaz Hermann Korner e dal cabarettista Fritz Lohner-Beda che in pochi anni divenne il polo sportivo della “migliore gioventù ebraica”. Mens sana in corpore sano, dimostrare cioè che gli ebrei sapevano giocare a pallone e con destrezza e che sapevano battersi nelle altre discipline con grande agonismo e perizia. Alle prime olimpiadi moderne, quelle di Atene del 1896, diciotto delle 52 medaglie austriache erano state conquistate da atleti ebrei.

L’Hakoah fu l’emblema di una comunità che voleva sentirsi parte della nazione, integrata e non disprezzata. Non si trattava più di Muskeljundentum, di giudaismo muscolare. Era una questione di orgoglio, di appartenenza, di identità. L’Hakoah agiva come una grande famiglia, fu la prima squadra a sfruttare il marketing sportivo, i giocatori sfoggiavano una casacca biancoblu con una grande H stampata al centro e una stella di David cucita sul petto. Il suo stadio si trovava nel Secondo Distretto di Vienna, ventimila erano i fan che affollavano le tribune, ed esultarono quando l’Hakoah divenne campione d’Austria nella stagione 1924-1925. L’Hakoah attirava i migliori talenti del calcio danubiano, Alexander Fabian detto il “portiere volante” sapeva anche correre in attacco e segnare gol impensabili. La squadra cominciò a girare il mondo, e a stupirlo.

Andò nella tana londinese del West Ham, per bastonare i presuntuosi e supponenti “maestri” inglesi che pretendevano di essere i migliori del globo: vennero sconfitti 5 a 0, ammutolendo lo stadio di Upton Park. Andarono persino negli Stati Uniti, per ammirarli il Polo Grounds di New York si riempì di 46mila spettatori, per uno sport che allora attirava solo gli immigrati italiani ed irlandesi. Erano i giocolieri dell’Austria ancora Felix e alla fine di quel grande tour furono oltre duecentomila gli statunitensi che assistettero alle loro esibizioni.

L’ungherese Bela Guttmann, la stella di questo circo, guadagnava un quarto degli introiti della società, ma fu irretito dall’allettante proposta dei New York Giants che gli offrirono 500 dollari al mese per il primo anno, 1000 al secondo più vitto e alloggio. Gianni Brera lo definì “l’astuto ebreo” (traspare uno stereotipo razzista, che peccato…). In realtà era solo molto accorto. Voleva tanti quattrini perché li sperperava al gioco e con le donne. Così, per aumentare gli introiti, si improvvisò manager e coniò l’Hakoah All Stars, convincendo molti compagni di Vienna ad aggregarsi al progetto. Aveva intuito la potenzialità immensa dello sport spettacolo.

I Globetrotters del calcio, grazie a Bela, scamparono ai lager nazisti. Guttmann tornò poi a Vienna, inseguito dai debitori. Divenne allenatore, anche molto bravo, dirigendo la sua vecchia squadra sino a quando i nazisti, con l’Anschluss, requisirono lo stadio e la lega austriaca confiscò tutti i trofei, cancellando dall’albo anche lo scudetto del 1925 e i risultati delle partite. Fu il più vigliacco dei gesti, una vergogna incancellabile. Molti dei giocatori dell’Hakoah vennero prelevati dalle SS, sbattuti in un carro piombato, destinazione del convoglio ferroviario il famigerato campo di concentramento di Theresienstadt.

C’è una drammatica testimonianza cinematografica di questi sventurati campioni. Li si vede schierati in un improvvisato campo di calcio del lager: indossano sbrindellate maglie bianche con su impressa una stella, affrontano avversari in maglie e pantaloncini neri. La formazione del Sonderkommando. Le scene sono state girate dal comico ebreo Kurt Gerron, che accettò perché credeva che se realizzava un documentario gradito ai nazisti forse gli avrebbero risparmiato la vita (lo scrisse Franklin Foer). Invece finì in una camera a gas di Auschwitz, assieme a gran parte di quei giocatori che lui aveva immortalato. C’erano duecentomila ebrei in Austria. Ne sopravvissero 6mila.

Bela Guttmann si salvò, dribblò fortunosamente l’Olocausto ma non i ricordi. Fu allenatore del Milan, nel 1955 vinse lo scudetto, col Benfica conquistò due Coppe dei Campioni. Poi, salutò i portoghesi che non volevano dargli i soldi che pretendeva. Lanciò il celebre anatema: “Senza di me questa Coppa non la vincerete mai più”. La maledizione resiste tuttora…

Guttmann scomparve nel 1981. L’Hakoah, invece, ricomparve. Una prima volta nel 1949, ma fu un fallimento. Nel 2000, però, un gruppo di ebrei viennesi riuscì a ricostituire lo Sport Club. Oggi conta meno di mille soci. La squadra di calcio milita nel campionato dilettanti e ora si chiama Maccabi. Un’omonima iniziativa c’è stata a New York, nel 2009. Il campo in cui i dilettanti dell’Hakoah-Maccabi si trova non distante dalla centrale viennese delle SS, e che ora porta il nome di Wiesenthalstrasse, la via di Wiesenthal, il cacciatore dei nazisti. Solo nel 1995 il governo austriaco ha chiesto scusa per tutte le vittime dell’olocausto, citando la storia dell’Hakoah. Pure la riluttante federazione calcistica ha dovuto riconoscere la validità dei trofei conquistati e cancellati sotto il nazismo.

Il calcio è spesso turbolenta memoria storica. Tra Italia e Austria, che si sono incontrate 37 volte (17 le vittorie azzurre, 12 quelle austriache, 8 i pareggi, l’ultimo match è del 20 agosto 2008, un movimentato pareggio 2 a 2), gli intrecci del destino sono innumerevoli. E tutti figli dei nostri difficili, ambigui, terribili tempi. Domani, la seconda puntata. Austria-Italia è una saga.