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Usa, il Partito Repubblicano ai piedi di Trump: chi gli va contro (come Liz Cheney) è fuori. E c’è chi pensa a una terza formazione

Dopo gli attacchi al tycoon, i deputati del Grand Old Party hanno votato a stragrande maggioranza per allontanare la figlia di Dick Cheney dalla carica di conference chair alla Camera. Coloro che a suo tempo votarono a favore dell'impeachment sono in silenzio da mesi, ormai consapevoli che un nuovo passo falso potrebbe costare loro l'oblio nell'ala conservatrice

Donald Trump è padrone sempre più assoluto del Partito Repubblicano. I deputati del Grand Old Party hanno votato a stragrande maggioranza (i numeri sono stati tenuti segreti) per allontanare Liz Cheney dalla carica di conference chair alla Camera. Cheney è una dei dieci deputati repubblicani che hanno votato per l’impeachment di Trump, dopo l’attacco al Congresso del 6 gennaio. In questi mesi ha continuato a bollare l’ex presidente come “un bugiardo” e “una minaccia per la democrazia”. Trump gliel’ha giurata e ora Cheney è stata scaricata. A dimostrazione, appunto, di come il partito sia sempre più soggetto a Trump e alla sua ideologia.

“Se volete dei leader che diffondano le bugie distruttive di Trump, non sono la persona per voi”, ha detto Cheney ai colleghi. Da settimane si parlava del suo probabile allontanamento dalla carica di Gop conference chair (la terza carica, per importanza, dei repubblicani alla Camera). Ma la deputata del Wyoming, figlia dell’ex vicepresidente Dick Cheney, non ha cercato di restare al suo posto. Non ha ammorbidito le sue posizioni. Non è venuta a patti con i deputati più vicini a Trump (ormai la maggioranza alla Camera). “Ciò che posso promettervi – ha detto Cheney – è che guiderò la battaglia per riportare il nostro partito e la nostra nazione agli ideali conservatori, per sconfiggere il socialismo, per difendere la repubblica, per tornare a fare del Gop il partito di Lincoln”. Dopo aver ricevuto il voto contrario di buona parte dei colleghi, Cheney è andata ancora all’attacco. “Farò di tutto perché Trump non si avvicini mai più alla Casa Bianca”, ha detto.

Puntuale è arrivata la risposta del tycoon, che definisce Cheney una “guerrafondaia” e un “essere umano rabbioso e orribile”. “L’ho guardata in tv ieri – spiega – e ho capito quanto negativa possa essere per il partito repubblicano. Cheney non ha personalità e non è nulla di buono per la nostra politica o il nostro Paese”. Già da tempo Trump chiedeva l’allontanamento di Cheney, rea di aver difeso la legittimità del risultato delle Presidenziali 2020. Kevin McCarthy, leader dei repubblicani e fedelissimo trumpiano, si è adeguato e ha chiesto che Cheney venisse rimpiazzata. La sua continua polemica contro Trump – è stata la giustificazione ufficiale di McCarthy – “impedisce ai repubblicani di ritrovarsi attorno a un messaggio unitario e coerente per riconquistare la Camera alle elezioni di midterm 2022”. Per il posto di Cheney c’è già un nome: Elise Stefanik, deputata di New York. Manco a dirlo, un’altra fedelissima dell’ex presidente.

Ma Liz Cheney non sparisce dalla politica, anzi. Come il padre, altro personaggio poco malleabile, Cheney promette di dare battaglia nel partito, promuovendo quegli ideali di conservatorismo classico – sicurezza, famiglia, limitato intervento statale – che sono le sue convinzioni più profonde. La sua parabola, da astro nascente della politica conservatrice a rinnegata, descrive comunque molto bene il carattere essenziale del Partito Repubblicano oggi. Chi si mette contro Trump ha il destino segnato. Chi osa toccarlo è destinato a combattere disperatamente per la propria sopravvivenza. Non che manchino gli avversari politici per l’ex presidente. Ma, sempre di più, preferiscono tacere. È il caso di senatori come Mitch McConnell, Susan Collins, Lisa Murkowski, o di deputati come Adam Kinzinger, che negli ultimi mesi si sono tenuti ben lontani da scambi polemici diretti con Trump. Altri scelgono la strada del ritiro dalla politica, come i senatori Pat Toomey e Richard Burr, anch’essi rei di aver votato per l’impeachment. Altri ancora proprio non ce la fanno e pensano alle alternative. È notizia di qualche giorno fa. Oltre 120 tra funzionari e politici delle amministrazioni Reagan, Bush padre, Bush figlio, e dello stesso Trump stanno pensando a fondare un terzo partito di centro-destra che si ispiri ai “principi del conservatorismo e al governo della legge”.

Il fatto è che quello che molti nel partito speravano non si è avverato. Trump non si è ritirato a vita privata. Non è tornato ai suoi affari. Non è diventato un padre nobile e senza potere. Se i suoi proclami fanno meno rumore – Facebook e Twitter continuano nel bando al suo account – la presa sul partito si è fatta sempre più serrata. Attraverso una fedelissima, Ronna McDaniel, Trump controlla il Republican National Committee, la sua rete di militanti e le sue finanze. “Save America”, il gruppo di azione politica privato di Trump, è più che mai attivo e con 85 milioni di dollari in banca può tessere strategie per le prossime elezioni. Più di tutto, Trump continua a scaldare il cuore dei militanti repubblicani. Un sondaggio di fine marzo mostra che l’81% dei repubblicani mantiene un giudizio positivo sull’ex presidente. Non importano i due processi per impeachment. Non importano gli innumerevoli scandali. Non importa che la teoria delle elezioni rubate si sia rivelata una gigantesca frottola. Non importa niente di tutto questo. Trump resta il dominus assoluto del partito e, anche senza Twitter e Facebook, continua a dettare le regole.

In un certo senso, Trump ha già vinto la guerra civile scoppiata nel suo partito. Senatori e deputati a Washington stanno zitti (pochi) o prendono apertamente posizione a suo favore (molti). Proprio al Senato, politici come Ted Cruz e Josh Hawley sono diventati l’incarnazione del verbo populista trumpiano, arrivando ad annunciare che non accetteranno più i finanziamenti elettorali delle grandi corporation perché queste appoggiano i diritti Lgbtq e l’allargamento del voto alle minoranze. Alle prossime elezioni di midterm candidati trumpiani sono pronti a sfidare i repubblicani più moderati in Ohio, Florida, Wyoming, Colorado. Di Liz Cheney si è già detto. E anche politici rispettati e di lungo corso come Mitt Romney vanno incontro a un futuro sempre più incerto. Ad una recente riunione di repubblicani dello Utah, Romney è stato subissato da urla e insulti. Lui, dal palco, ha esibito con orgoglio il suo pedigree. È senatore repubblicano dello Utah. È stato candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 2012. È stato governatore repubblicano del Massachusetts. Suo padre era un famoso governatore repubblicano del Michigan. L’orgogliosa rivendicazione di fede repubblicana non è servita. Urla e buuu sono continuati per tutto il suo intervento. Il crimine di Romney: aver votato per ben due volte a favore dell’impeachment di Trump.

Va ricordata comunque anche un’altra cosa. L’attuale scontro nel Partito Repubblicano non ruota soltanto attorno al potere, ai posti al Congresso, al controllo del partito e dei finanziamenti. In gioco ci sono anche due visioni culturali alternative, che dopo anni di incerto equilibrio si scontrano. C’è chi pensa – per esempio McConnell e Romney – che il Gop debba tornare a concentrarsi sui temi tradizionali della sua politica: sicurezza nazionale, tagli fiscali, deregulation, limitata spesa sociale. C’è invece chi crede che, dopo Trump, a prevalere siano soprattutto i temi dei valori, della polemica contro la cancel culture, del Make America Great Again. A sostenere questa tesi c’è un numero: durante quattro anni di governo, Trump ha aggiunto 6.700 miliardi al debito pubblico americano. Non è successo niente. Gli elettori repubblicani non hanno fatto una piega. Segno, sostengono i più trumpiani, che non è più la moderazione di bilancio a guidare le scelte dei conservatori Usa, ma le questioni dell’aborto, della famiglia, di Black Lives Matter, della rabbia contro il presunto tentativo messo in atto da femministe, minoranze, omosessuali, media liberal, miliardari global, di cancellare il vecchio cuore d’America.

Le prossime elezioni di midterm diranno quanto il trumpismo e i suoi candidati abbiano davvero conquistato il Gop. A considerare le cose oggi sembra però che i giochi siano fatti. Tante storie, antiche e recenti – dalla silent majority di Richard Nixon alla rivoluzione culturale di Ronald Reagan, dall’insofferenza per il politically correct ai Tea Parties ai movimenti evangelici fino alle polemiche sui deplorables – hanno spianato la strada all’emergere del fenomeno Trump e ne decretano oggi il trionfo (se non suo, della sua ideologia). Liz Cheney dice che non è finita e che lei continuerà a combattere. La verità è che lei, e molti altri, potrebbero essere gli ultimi sussulti di un passato prossimo a spegnersi.