Cultura

Il teatro che riapre grazie (anche) a una raccolta fondi trasformandosi in uno studio televisivo: “Ma ci manca il rumore degli spettatori in sala”

È successo a Sant’Arpino, nel Casertano. In una data non casuale: il 27 marzo, cioè il giorno inizialmente scelto per la ripartenza del settore artistico e culturale, poi bloccata dall’avanzare dei contagi. Eppure è da allora che il Teatro Lendi si è trasformato in studio televisivo per ospitare lo spettacolo “E Che Teatro” ideato da Lino D'Angiò e Alan De Luca, in onda su Televomero e in streaming. Ogni sera c’è un unico spettatore, scelto fra chi ha contribuito al crowdfunding

Il teatro riapre (anche) grazie a una raccolta fondi. È successo a Sant’Arpino, nel Casertano. In una data non casuale: il 27 marzo, cioè il giorno inizialmente scelto per la ripartenza del settore artistico e culturale, poi bloccata dall’avanzare dei contagi. Eppure è da allora che il Teatro Lendi si è trasformato in studio televisivo per ospitare lo spettacolo “E Che Teatro” ideato da Lino D’Angiò e Alan De Luca, in onda su Televomero e in streaming tre volte a settimana. Un’iniziativa avviata nei mesi scorsi.

Novembre 2020: l’Italia torna a chiudersi per affrontare la seconda ondata della pandemia. Fra le misure previste c’è il coprifuoco alle 22. Alcuni artisti campani si riuniscono e iniziano a collaborare per volere di un’emittente locale: “Facevamo una trasmissione in diretta per essere di compagnia ai campani nell’ora di rientro forzato a casa”, spiega Claudia Federica Petrella, attrice coinvolta nel progetto. “Andò molto bene grazie all’interazione con il pubblico, portata avanti con i social. Eppure, nonostante il successo di share, il programma fu interrotto”. Ma il legame con gli spettatori è rimasto: “Ci hanno chiesto tutti di continuare. Non sapevamo come fare: senza una produzione, senza una sede. Poi Francesco Scarano, direttore del Lendi, si è offerto di ospitarci. Abbiamo radunato così lo stesso cast della trasmissione precedente, incaricandolo di interpretare gli stessi ruoli”.

Il format invece cambia un po’ perché deve adattarsi a un passaggio dagli studi televisivi al palcoscenico. Gli attori e gli ideatori del programma avviano una raccolta fondi per ottenere i finanziamenti necessari: in neanche un mese ottengono quasi 20mila euro donati da circa 300 persone. Petrella e i suoi colleghi – una squadra composta da oltre 30 esperti, fra membri del cast e staff tecnico – hanno risposto così al calo di lavoro imposto dalla pandemia. “Siamo tutti artisti dello spettacolo dal vivo: chi dalla strada, chi dal teatro, professionisti dell’animazione. Senza pubblico per noi è finita. Eppure, con questa iniziativa, siamo riusciti a reinventarci”. Lo spettacolo riunisce più personaggi che interagiscono nel corso delle puntate. C’è una trama che si snoda, ma ogni esibizione è diversa. Per ogni puntata viene coinvolto un nuovo ospite che contribuisce a cambiarne il corso.

La platea? È vuota. “Quando sono tornata, la prima volta dopo tanto tempo, mi sono quasi commossa. Io vivo di teatro da quando avevo 17 anni e ho avuto l’impressione di tornare finalmente a casa. A questa è seguita una sensazione straniante. Bisogna immaginare le reazioni del pubblico, che è lontano”. Ogni sera c’è un unico spettatore, scelto fra chi ha contribuito al crowdfunding. “Gli viene fornito un telecomando con cui fa simbolicamente avviare la trasmissione”, continua Petrella. Segno di un rapporto con il pubblico che resta, nonostante il vuoto della sala. Può sembrare un paradosso ma non mancano solo i visi. Anzi, il vuoto è soprattutto quello dei suoni: “Cabaret a parte, molti attori non guardano gli spettatori in volto, per questioni di concentrazione. Ma sentire, quello è fondamentale: magari un colpo di tosse ti fa capire che stai andando lento. Io per esempio guardo il pubblico in viso solo alla fine, quando devo ringraziare. A quel punto cerco i volti uno per uno”.

Ora l’interazione si svolge in differita, con i commenti via web. Distante ma più articolata. “Come è stato per il primo spettacolo poi chiuso, quello da cui è partito tutto. Facevamo sentire le persone meno sole. Una signora vedova ci aveva scritto ‘vivo da sola, aspetto le 22 per guardare voi’”, conclude Petrella. “Di certo non ci arricchiamo facendo un lavoro simile in questo momento: basti pensare che usiamo i nostri vestiti, non ne abbiamo di scena. Senza i ristori non ce l’avremmo fatta. Ma quando ricevi messaggi come questi capisci che, in qualche modo, sei riuscito a creare un contatto. Ed è per quello che vai avanti”.