Diritti

È facile condannare il giorno dopo. Ma li abbiamo fatti morire anche noi

Il mare aperto ha colori netti, marcati. Distingui un oggetto o un corpo che galleggia perché intorno ad esso puoi scorgere la linea definita tra il blu cobalto e il celeste, quella punta di azzurro cristallino che da profondità e dimensione e che fa un po’ meno paura perché sembra di toccare, sembra lontano dall’abisso.
O forse è solo più vicino.

“Abbiamo navigato in un mare di cadaveri”, sono state le parole dei soccorritori della Ocean Viking di SOS Mediterranée, l’ong giunta sulla scena dell’ultima tragedia consumatasi giovedì nel Mediterraneo centrale. La storia dell’ennesimo naufragio al largo delle coste della Libia, la storia dell’ennesimo gommone abbandonato senza alcun soccorso per quasi 30 ore dalla prima segnalazione di Alarm Phone al Centro di Coordinamento Marittimo di Roma.

Quanto sono lunghe 30 ore in balia delle onde su un sottile strato di plastica con tubolari più o meno gonfi e la cui tenuta significa sostanzialmente vita o morte? Trenta ore di richieste tanto disperate quanto ignorate come se a bordo di quel gommone disgraziato non ci fossero donne, uomini e bambini degni di soccorso. Come se la loro vita, i governi italiani ed europei sembrano dirci non vale quanto la nostra.

Poi certo, è facile e necessario riempirsi la bocca con le dichiarazioni del giorno dopo, i post patetici e autoassolutori con l’utilizzo delle fotografie più drammatiche e i grandi proclami per il futuro. Intanto però quelle persone sono andate giù, inabissate mentre chiedevano aiuto nonostante tutte le autorità, a conoscenza del rischio imminente di naufragio, non abbiano fatto nulla. Come la chiamiamo questa colpa?

Centotrenta forse, le persone a bordo ma il numero preciso non lo sapremo mai, abbandonate in un mare con onde fino a 6 metri. Nelle loro ore più spaventose, l’unico contatto umano su cui queste vite disgraziate hanno potuto contare è stato il centralino d’emergenza di Alarm Phone e i suoi volontari che li hanno assistiti telefonicamente per tutto il tempo. Una ong, un pezzo di società civile, i cui attivisti di nazionalità diverse e sparsi in tanti Paesi, sollecitano senza sosta gli Stati europei e le autorità ‘competenti’ chiedendo un soccorso, per scongiurare la tragedia. Ma è normale che accada questo?

La cronologia delle comunicazioni di quelle ore è una mappa della vergogna. Sono sicuro che, letta tra qualche anno, proveremo tutti colpa e profondo imbarazzo per non aver impedito queste scellerate politiche criminali.

Le comunicazioni e gli innumerevoli tentativi di Alarm Phone elencano le autorità responsabili declinandole nei loro ruoli: la nostra guardia costiera estromessa dai soccorsi e costretta a rimandare le segnalazioni alla cosiddetta guardia costiera libica, inadeguata e indolente che arriva a giustificare il non intervento perché il mare è troppo mosso. Su di loro l’aereo di Frontex che sorvola il gommone a rischio ribaltamento senza determinare né favorire alcun soccorso.
Li osserviamo dall’alto morire, li guardiamo annegare.

Non ci meritiamo trattati di morte. Abbiamo bisogno di politiche che tutelino la vita. Quella di tutti e di tutte, anche di coloro che non sono cittadini europei.

Occorre ripristinare un dispositivo di soccorso europeo, liberare le navi della società civile bloccate nei porti e aprire veri corridoi umanitari. Per scongiurare una nuova stagione di naufragi di Stato. Per salvare il nostro mare e le nostre colpe.