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Bosnia: storia di Amir, derviscio fuggito dagli Ayatollah. “In sciopero della fame e dei farmaci per denunciare violenze sulla rotta balcanica”

Amir Labbaf per anni in Iran è stato difensore dei diritti dei Dervisci, musulmano Sufi. Oggi è rifugiato politico ed ideologico. Dal giugno del 2019 è semi-paralitico e vive su una sedia a rotelle, ma da tempo le patologie sono aumentate. Con la sua rinuncia a cibo e farmaci vuole protestare contro le attività criminali che si stanno svolgendo all’interno del campo profughi in Bosnia nei confronti suoi e di altri soggetti vulnerabili

“Ti prego Amir, sospendi lo sciopero della fame e torna a prendere i farmaci di cui hai bisogno. Non farci preoccupare, fratello non sei solo”. Il tono dei messaggi inviati dall’Italia attraverso i social dall’Italia ad Amir Labbaf, richiedente asilo iraniano dal novembre 2019 bloccato all’hotel Sedra, un ex struttura alberghiera trasformata in campo profughi a metà strada tra Cazin e Bihac (Bosnia nord-occidentale), sono più o meno identici. Un forte senso di preoccupazione, angoscia, per le sorti di uno dei portavoce del campo.

Labbaf, originario di Qom (sede di uno dei principali siti nucleari iraniani) non è un rifugiato come gli altri, ma una figura di spicco in Iran dove per anni è stato difensore dei diritti dei Dervisci, musulmano Sufi e dunque rifugiato politico ed ideologico. La sua posizione, il suo ruolo e la sua testimonianza oculare delle violenze perpetrate dal regime degli Ayatollah nei confronti della popolazione Darwish, soprattutto, lo hanno costretto alla fuga dalla Persia ormai tre anni fa. Da allora il suo cammino è stato un calvario che arriva fino ai giorni nostri e alla sua protesta messa in atto in maniera tutt’altro che simbolica. Una situazione sanitaria molto difficile la sua: Amir Ali Mohamed Labbaf dal giugno del 2019 è semi-paralitico e vive su una sedia a rotelle, ma da tempo le patologie sono aumentate. Nonostante tutto ciò, il membro della comunità Sufi non intende al momento recedere dalla sua protesta: “Mi sono messo in sciopero della fame semplicemente per fare il mio lavoro di rappresentante nel campo e per difendere i miei diritti legali e umani – racconta Labbaf a ilfatto.it -. La mia morte potrebbe essere dolorosa per alcuni, ma presto verrò dimenticato. Il mio fisico inizia a risentire per lo stop all’assunzione di medicinali, ma non posso e non voglio fermarmi, sono determinato a raggiungere l’obiettivo”.

Da una parte la sua ostinazione, dall’altra l’ansia di molti, in particolare di chi dall’Italia cerca di sostenerlo anche attraverso l’attivazione di un appello su Change.org: “Amir ha iniziato lo sciopero della fame da quasi due settimane e da alcuni giorni ha anche interrotto l’assunzione dei farmaci che lo tengono in vita. La sua è una battaglia per portare alla luce quanto accade dentro il campo Sedra e negli altri disseminati lungo la cosiddetta ‘rotta Balcanica’; una battaglia per ottenere giustizia e diritti garantiti”. Lorena Fornasir, psicologa clinica che da Pordenone si è trasferita a Trieste assieme a suo marito, Gian Andrea Franchi. La coppia di recente è salita agli onori della cronaca per essersi presi cura dei migranti bloccati lungo la rotta che dalla Grecia conduce all’Europa attraverso i Balcani. Bianchi alla fine di febbraio è stato addirittura denunciato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Tutto per aver lenito le ferite dei disperati, tacciati di essere dei passeur, gli scafisti della terraferma. Un’accusa infamante che ha suscitato la rivolta di tanti triestini e non solo.

Tra quelli di cui la coppia, 160 anni in due, si sé presa cura in questi anni c’è anche Amir Labbaf: “La sua è una storia incredibile – spiega la signora Fornasir – un vero e proprio caso. Amir non è un disperato, ma una persona di grande importanza perché sta facendo una lotta per la comunità Sufi, per la sua famiglia, minacciata dal regime, e per gli altri membri del campo. Tutti lo conoscono. Noi abbiamo avuto il piacere di incontrarlo diverse volte, l’ultima nel febbraio scorso quando siamo riusciti a portarlo fuori dal campo per un pranzo. Ci ha raccontato cosa succede dentro quel campo, le violenze messe in atto dalle forze di polizia bosniache, dalla polizia e il totale immobilismo di chi il campo lo gestisce, ossia l’Iom (International Organization for Migration). Spetterebbe all’agenzia per le migrazioni garantire la sicurezza, ma ciò non avviene. Temiamo per la sua vita, Amir potrebbe anche essere ucciso dai sicari del regime di Teheran, autori in questi anni di delitti su commissione per cancellare le voci di dissenso. Alla fine la sua morte sarebbe vista con favore da tanti, in Iran. Ricordo ancora la visita della delegazione Ue nei campi bosniaci attorno a Bihac il 31 dicembre scorso: erano tutti costernati per le condizioni di vita, ma alla fine è stato fatto poco o nulla”.

Le affermazioni della Fornasir sono tutt’altro che campate in aria. All’interno dell’Islam spesso le minoranze religiose ed etniche vengono viste con sospetto e, nel peggiore dei casi, perseguitate e soggette a violente repressioni. Il dramma di Labbaf e della comunità Sufi (sufismo, la dimensione mistica dell’Islam), sebbene con tutte le distinzioni del caso, può essere paragonato alle pene patite dagli Yazidi per mano di Daesh nel nord dell’Iraq dal 2014 al 2017 o la perenne aggressione verso gli Hazara in Afghanistan da parte dei gruppi etnici dominanti. Tornando al campo di Sedra, lo spaccato di cosa accade lì dentro lo fornisce l’Oiphr, l’organizzazione internazionale per la conservazione dei diritti umani: “Labbaf è in pericolo perché ha evidenziato le attività criminali che si stanno svolgendo all’interno del campo profughi nei confronti suoi e di altri soggetti vulnerabili – denuncia l’Oiphr -. Il suo gesto, avviare lo sciopero della fame e dei farmaci, ha attirato diverse attenzioni e messo fine ad un collegamento tra alcuni malviventi mascherati da richiedenti asilo infiltrati e le organizzazioni criminali all’esterno. Per questo ha subìto minacce di morte. Il governo bosniaco deve prendere coscienza di questa situazione e si deve ritenere responsabile qualora succeda qualcosa di brutto ad Amir Labbaf”.

Oltre al suo ruolo di leader comunitario e di portavoce del campo, il rappresentante derviscio deve anche pensare alla sua salute. In questo senso sia lui che la stessa Lorena Fornasir si sono dati e si stanno dando da fare per stimolare il governo italiano ad attivare un corridoio umanitario. Labbaf si è recato anche all’Ambasciata d’Italia a Sarajevo ed è in contatto con il rappresentante diplomatico italiano, Nicola Minasi: “Ottenere l’ok per un corridoio umanitario sarebbe la soluzione migliore, ma non credo sarà così semplice – aggiunge il cittadino iraniano -. Il 6 marzo scorso ho presentato domanda all’Ambasciata a Sarajevo, ma è stato tutto inutile”. In una lettera inviata a Labbaf pochi giorni fa in risposta ad una missiva del 24 marzo, Minasi si mette a totale disposizione per qualsiasi necessità, ma chiarisce che il grosso del lavoro documentale per avere la possibilità di entrare in Italia con un corridoio umanitario deve essere fatto proprio qui: “Innanzitutto trovando un istituto idoneo disposto ad ospitarlo e a sostenere i costi legati alla riabilitazione e all’alloggio – scrive Minasi elencando tutte le pratiche necessarie per il visto -. Una volta risolta questa parte e le autorità italiane sono state informate può seguire la parte formale sui documenti e sul visto. Una volta raccolta tutta la documentazione possiamo fissarle un appuntamento presso la sezione consolare della nostra ambasciata”. Facile a dirsi, molto più complicato a farsi. Il tempo stringe, la situazione sta precipitando adesso dopo la decisione di Labbaf di attivare la forma di protesta: “Siamo riusciti a mettere in piedi un gruppo di lavoro ampio per il duo supporto – chiosa Lorena Fornasir -. L’importante è fare in fretta perché le sorti di Amir Labbaf sono appese ad un filo”.