Società

Perché si parla poco del costante calo del quoziente intellettivo della popolazione

Uno degli esempi più lampanti di quanto poco la nostra epoca si preoccupi dell’intelligenza è dato dall’hashish. Legalizzarlo sì, legalizzarlo no, un favore alla malavita, però lenisce le sofferenze dei malati terminali (vero), placa l’ansia (vero solo in alcuni casi). Nessuno, però, che si concentri sull’unico effetto accertato: i danni provocati al cervello, in particolare la riduzione del volume della materia grigia orbito-frontale, in molti casi con un riscontrato calo del quoziente intellettivo.

Già, il quoziente intellettivo. Al netto di tutte le critiche legittime sui criteri, e sulla pretesa di misurare un fenomeno così complesso come l’intelligenza, se ci atteniamo ai dati degli ultimi cento anni facciamo una scoperta interessante. Per larga parte del XX secolo e fino al 2009 il livello medio di intelligenza della popolazione è aumentato (fenomeno noto come “effetto Flynn”). Ciò è dovuto a vari fattori, tra cui un ambiente sociale e intellettuale più stimolante, il protrarsi e l’intensificarsi degli studi scolastici, le sfide intellettuali lanciate quotidianamente dalla società (attraverso libri, giornali, inchieste eccetera), i progressi della Scienza dell’educazione e, infine, la maggiore attenzione dei genitori nel curare il livello e la qualità dell’apprendimento dei loro figli.

Insomma, la società lavorava per l’intelligenza della popolazione. Fino alla notizia shock del 2016, a cui stranamente si dette scarsa risonanza. Un nuovo studio condotto da Richard Flynn e da un suo collega mostrò che tra il 1990 e il 2009 il Q.i. aveva cominciato lentamente ma inesorabilmente a calare. Un calo costante che, oggi, è diventato vero e proprio tracollo, se pensiamo alla percentuale di persone afflitte dal cosiddetto analfabetismo funzionale (sanno leggere, ma non capiscono il senso né sono in grado di rielaborarlo e spiegarlo). Le cause di questo tracollo sono molteplici, come sempre, ma una emerge su tutte le altre: la comparsa di nuove tecnologie digitali che, specialmente nel caso dei più giovani, rappresentano un potentissimo e pervasivo elemento di degradazione delle facoltà cognitive, emotive e relazionali.

E dire che l’uomo, fra le creature più deboli fisicamente e povere di istinti di tutto il pianeta, ha un bisogno fondamentale della propria intelligenza, perché è con essa che riesce a sopperire ai limiti di cui sopra e adattarsi alle insidie del mondo esterno. Il processo che consiste nell’immagazzinare dati, creando così la memoria, per poi elaborarli creando un ordine di senso con cui “afferrare” le cose del mondo, si chiama apprendimento. Il fatto che ogni individuo impari il processo di cui sopra in maniera funzionale e singolare, rende possibile la formazione di un pensiero “autonomo e critico”, che significa non meccanicamente generato da dogmi superiori né passivamente omologato alle “leggi” imposte da un regime.

Il guaio è che oggigiorno è l’Intelligenza Artificiale a occuparsi del processo di immagazzinamento, memoria ed elaborazione dei dati, con l’intelligenza umana ridotta a svolgere un ruolo ausiliario e sempre più ininfluente. Ecco cosa scrive a tal proposito il neurobiologo Laurent Alexandre, a pagina 73 del suo La guerra delle intelligenze. Intelligenza artificiale contro intelligenza umana, EDT, Torino 2017: “Laddove il libro favoriva una concentrazione duratura e creativa, Internet incoraggia la rapidità, il campionamento distratto di piccoli frammenti d’informazioni provenienti da fonti diverse. Un’evoluzione che ci rende più che mai dipendenti dalle macchine, assuefatti alla connessione, incapaci di procurarci un’informazione senza l’aiuto di un motore di ricerca, dotati di una memoria difettosa e alla fine più vulnerabili a manipolazioni di ogni sorta”.

Spogliati da ogni pregiudizio o istinto reazionario, bisognerebbe riflettere su tutto questo prima di aderire acriticamente alle politiche di diffusione entusiasta delle nuove tecnologie presso i ragazzi. Penso, solo a titolo di esempio, alla recente campagna “Digitali e uguali”, promossa dal gruppo editoriale Gedi, guarda caso in collaborazione con una nota impresa che vende prodotti rigorosamente online. L’iniziativa è eticamente ineccepibile (dotare di un computer ogni ragazzo nell’epoca della Didattica a distanza), ma condotta con finalità economiche più che pedagogiche. Non contesto le ragioni economiche, perché sebbene il comparto delle imprese online sia l’unico che sta facendo riscontrare profitti enormi in questa epoca di lockdown, la cosa è perfettamente legittima.

Quanto piuttosto dovrebbe allarmare l’entusiasmo acritico con cui la nostra società, con tanto di testimonial illustri (le luci della ribalta hanno un prezzo), non si preoccupi per nulla dei danni irreparabili che l’abuso di queste nuove tecnologie provoca sui giovani. Mi può stare anche bene l’idea di un computer a “testa”, ma vorrei che si spendessero energie (e finanze) anche per occuparsi della qualità di quelle “teste”, quando in realtà si spendono cifre astronomiche per potenziare l’Intelligenza Artificiale e quasi più nulla per quella umana. A farlo dovrebbe essere un mondo politico e sociale seriamente interessato alla formazione cognitiva dei propri cittadini, e non appiattita sulla logica finanziaria di chi, per tante ragioni, sembra interessato soltanto a crescere quelli che Charles Wright Mills chiamava i “docili robot”…