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Nel Sahel l’ultima tentazione è credere che non ci sia più nulla da fare

“Il solo mezzo per liberarsi di una tentazione è quello di cedervi”. È uno degli aforismi più noti di Oscar Wilde, discusso e spesso criticato scrittore irlandese morto nel secolo scorso.

Le nostre tentazioni sono di sabbia e, come lei, si insinuano, come la polvere, nei meandri e snodi della vita personale e della storia collettiva. Alcune tentazioni sono più importanti e seducenti di altre. Spesso sono universali, semplicemente legate al fatto di essere umani, fragili e inermi dinnanzi a fatue promesse o inedite opportunità. Le tentazioni sembrano aprire a ciò che appariva chiuso, sigillato, barricato dietro muri di cinta. I figli hanno le loro e così i padri di famiglia o le donne, in particolari stagioni della vita. A ognuno le sue tentazioni o, se vogliamo, occasioni per fare esperienza e talvolta pagare di persona le scelte operate per accedervi.

Esistono tentazioni che assumono il colore e il sapore delle circostanze e del contesto in cui nascono, crescono, si sviluppano, maturano e infine si realizzano. Nel Sahel, non meno o non di più che altrove, abbiamo le nostre e, nel nostro piccolo, abbiamo cercato di mettere in pratica l’aforisma di Oscar Wilde.

Ad esempio la tentazione di svendere i propri ideali in cambio di illusioni mercantili. Come se il possesso di soldi e di merci siano la garanzia di dare un senso e una direzione alla vita. Gli intellettuali, i politici, buona parte dei comunicatori sociali e financo i profeti a buon mercato entrano in questa speciale categoria.

L’importanza del prestigio sociale, la carriera e l’opportunismo politico non sono altro che mezzi per un fine che, come l’orizzonte, si allontana quanto ci si avvicina. Le alleanze di convenienza, che si fanno e disfanno a seconda delle stagioni, ne sono uno degli esempi più illuminanti. Né amici né nemici, solo provvisori complici di affari e voltagabbana se questo appare funzionale al sistema di rapina dei poveri. Quanto di più sacro, se ancora ne esiste la percezione, e costitutivo di valori ed esperienze fondanti, è semplicemente cancellato. Ciò che conta, in definitiva, è l’interesse che l’affare, la relazione o il progetto possono comportare per se stessi o il proprio circolo.

Il trasformismo assomiglia paurosamente a quanto accade nel pianeta calcio del nostro tempo. Si cambia di squadra durante il campionato a seconda del montante dell’ingaggio e, con l’attuale assenza delle tifoserie, il processo appare ancora più semplice e indolore. Oppure la nefasta tentazione di chiudere parole, porte e frontiere per chi, dove e come si trova, il presente è diventato invivibile. Andare lontano dove ci sono le luci che brillano più forte e dove suona diversa la musica del tempo che passa.

Guerre, carestie, cambiamenti climatici, demografia, pessimo governo della Casa Pubblica, cioè della Repubblica, sono altrettanti accorati inviti per cercare altrove ciò che qui non si trova o si è smarrito. Diritto di rimanere e diritto di partire comminano insieme e la tentazione della fuga è a volte l’unica realtà possibile. Il nostro Niger, chiamato a scegliere proprio oggi il suo nuovo “timoniere”, dal penultimo posto nell’indice dello sviluppo umano, si è gradualmente trasformato in terra d’asilo per migliaia di persone. Perché c’è un partire e c’è uno scappare per salvare se stessi e la propria famiglia dall’orrore.

Diverse migliaia di persone, con l’unico torto di essere nate nel posto e momento sbagliato, sono costrette a trovare un rifugio degno di questo nome, onde tentare di mettere assieme i pezzi sparsi di una vita spezzata. Sulle strade di Niamey e nei centri di transito c’è un’Africa di volti e storie che camminano nella sabbia. La tentazione di renderli invisibili è forte perché il peso del loro sguardo è insopportabile. Alcuni di loro hanno iniziato lunedì uno sciopero della fame. Questione di dignità.

L’ultima tentazione è nata da poco e consiste nel credere che ormai non c’è più niente da fare. Il mondo, l’Africa, la società e il Niger sono così e basta. Magari l’ha voluto Dio o se non l’ha voluto lo ha almeno permesso perché, dice il senso comune della gente, non c’è nulla che accada senza il suo esplicito consenso. Carestie, guerre, gruppi armati, contadini nel quotidiano, donne in lista d’attesa, giovani derubati del verbo coniugato al futuro, sindacati come soprammobili del potere, partiti tenuti in ostaggio dal potere, democrazia alimentare, elezioni consigliate e religiosi in cerca d’autore. Tutto sembra imbullonato, deciso, assodato e comunque inevitabile. È la tentazione più subdola, specie per i pochi e autentici militanti che credono ancora e sempre in un mondo differente. Nel frattempo la sabbia, silenziosa e tenace, sorride.