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Il governo Draghi e il precedente di Monti: ecco perché la gestione di Mattarella è stata molto diversa da quella di Napolitano

Dopo la scelta del capo dello Stato di affidare il mandato all'ex presidente della Bce, in tanti sono tornati al precedente del 2011. Le differenze tra le due gestioni sono molteplici. E non si fermano a una crisi sanitaria, economica e sociale, che nel 2011 non c'era. Dieci anni fa l'inquilino del Colle disse che bisognava "tutelare ora il paese da un precipitoso ricorso al voto"

Un governo tecnico, anzi un governo del presidente, invece di tornare a elezioni. La crisi politica provocata da Matteo Renzi si chiude così: con Sergio Mattarella che affida il mandato a Mario Draghi per un “governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Sarà il curriculum finanziario e il passato in Europa del presidente incaricato, ma in tanti in queste ore sono tornati indietro nel tempo, all’ultimo precedente: il governo di Mario Monti voluto da Giorgio Napolitano. Le differenze rispetto al 2011, però, sono molteplici. A cominciare dalla situazione del Paese: all’epoca l’emergenza era rappresentata dalla “necessità di ridurre il debito pubblico“, come disse l’allora presidente della Repubblica. Dieci anni dopo lo scenario è molto diverso e parecchio peggiore. Di emergenze ce ne sono almeno tre: oltre a quella economica, c’è quella sociale ed entrambe sono state scatenate dalla più grande epidemia dell’ultimo secolo. Dieci anni dopo la crisi del 2011, l’Europa che non ci chiede più di ridurre il debito ma di utilizzare più di 200 miliardi di aiuti del Recovery in modo opportuno. Cioè per provare a ripartire dopo una crisi finanziaria che non ha precedenti.

A essere diversa, però, non è solo la situazione del Paese ma l’intera gestione della crisi politica. Scoppiata per motivi assolutamente diversi. Il 12 novembre del 2011 lo spread fuori controllo e le richieste di rigore dell’Europa costrinsero Silvio Berlusconi alle dimissioni. Un passo indietro che era stato preceduto da alcune mosse del Quirinale: già all’inizio del mese Napolitano aveva avuto colloqui con le principali forze politiche. Non erano consultazioni – il governo era in carica – ma una sorta di sondaggio del Colle: le agenzie dell’epoca lo definirono un “giro di contatti” del presidente. Poi il 9 novembre, quando il governo guidato dall’ex cavaliere era praticamente in agonia, il presidente della Repubblica aveva dichiarato: “Entro breve tempo o si formerà un nuovo governo che possa con la fiducia del Parlamento prendere ogni ulteriore necessaria decisione o si scioglierà il Parlamento per dare subito inizio a una campagna elettorale da svolgere entro i tempi più ristretti”. Lo stesso giorno però, come ricorda l’archivio dell’Ansa, Napolitano aveva nominato senatore a vita Mario Monti. Il professore era salito al Colle due giorni dopo ufficialmente per ringraziare il capo dello Stato della nomina. Un ringraziamento particolamente denso, visto che il colloquio era durato più di due ore. Poi, a dimissioni di Berlusconi formalizzate, era avvenuto quello che tutti si aspettavano: incarico a Monti dopo un giro di consultazioni super rapido.

La domanda è ancora particolarmente d’attualità: ma perché all’epoca Napolitano non sciolse le Camere, portando il Paese a elezioni? Il capo dello Stato parlando alla Nazione, dopo aver incaricato Monti, disse: “Tutelare ora il paese da un precipitoso ricorso al voto è un’esigenza cui tutte le forze politiche devono concorrere. Per questo affido a Mario Monti l’incarico di formare un governo aperto al sostegno e alla collaborazione sia della formazione che ha vinto le elezioni nel 2008 che quelle che si sono collocate all’opposizione. Non si tratta di operare nessun ribaltamento nè di venire meno all’impegno di rinnovare la democrazia dell’alternanza attraverso le elezioni. Si tratta solo di dar vita a un governo che unisca forze politiche diverse in uno sforzo straordinario che l’attuale emergenza esige”.

Va sottolineato che all’epoca non c’era alcuna pandemia da centinaia di morti al giorno, non bisognava portare a compimento alcuna campagna di vaccinazione e non esisteva una data di scadenza per programmare l’uso di importanti aiuti europei: all’epoca Bruxelles ci chiedeva di tagliare le spese non di decidere come spendere miliardi. Quindi la scelta di tornare alle urne – in anticipo di circa un anno rispetto alla naturale scadenza della legislatura – poteva essere presa visto che non c’era alcuna epidemia da cui difendersi. Per Napolitano, però, era proprio “da un precipitoso ricorso al voto” che bisognava tutelarsi. Oggi, invece, è cambiato il mondo. Sono ben tre le emergenze – quella sanitaria, sociale ed economica – citate da Mattarella tra gli ostacoli che gli hanno sbarrato la strada del voto anticipato. Dopo il colloquio con Roberto Fico, il capo dello Stato ha tenuto un discorso lungo sette minuti: quasi cinque sono stati utilizzati per spiegare le numerose controindicazioni di un ritorno alle urne. Una strada che per l’inquilino del Colle era inopportuna sia dal punto di vista sanitario (il probabile aumento dei contagi) che dal punto di vista pratico (sarebbero serviti mesi prima di avere un governo in carica).

Certo i maligni ricordano come il nome di Draghi sia da almeno un anno il convitato di pietra di ogni discussione sulla crisi politica. L’accusa è semplice: da mesi erano in corso interlocuzioni in corso con l’ex presidente della Bce. Tre giorni fa, però, il Quirinale ha smentito qualsiasi contatto tra Mattarella e Draghi da quando si è aperta la crisi di governo. Senza considerare che prima di arrivare all’incarico dell’ex presidente della Bce, il Colle ha seguito tutti i passaggi dettati dalla Costituzione. Non ci sono stati incontri con tutte le forze politiche con il governo ancora in carica come invece aveva fatto Napolitano nel 2011. Nessun “giro di contatti”, insomma. E questa volta il presidente del consiglio non si è dimesso per manifesti limiti del suo governo che facevano esplodere lo spread e la sfiducia dell’Ue per il nostro Paese. Giuseppe Conte ha fatto un passo indietro perché la più piccola forza che sosteneva la sua maggioranza – Italia viva di Matteo Renzi – gli ha prima tolto l’appoggio e ha poi fatto fallire ogni tentativo di riappacificazione con il resto della coalizione. Solo dopo le dimissioni del premier, il capo dello Stato ha varato un giro ufficiale di consultazioni tra i partiti e poi ha affidato un mandato esplorativo a Roberto Fico, per provare a creare una maggioranza che sostenesse un governo politico. Un tentativo fallito sempre a causa del boicottaggio renziano: a quel punto il capo dello Stato ha scelto la via del governo tecnico. Spiegando che non ha optato per il ritorno alle urne perché ha scelto di tutelare l’Italia dalla pandemia, dalla crisi economica, dal rischio di perdere i fondi europei. Non da un precipitoso ricorso al voto.