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Il made in Italy non deve essere solo food e moda, ma anche geopolitica mediterranea

Cosa può esserci, oltre il food e la moda, a trainare quel jolly prismatico chiamato “Made in Italy”? Perché oggi occorre una nuova visione italiana nel Mare Nostrum che lo trasformi davvero in una macro-opportunità per le nostre utilities? Quanto potrà influire sui destini futuri dell’Italia una programmazione diversa del suo ruolo in quel grande lago salato che va da Gibilterra all’Anatolia?

Punto di partenza è la sintesi tra lo scenario attuale e la capacità di costruire oggi un futuro che sia chiaro e produttivo in tal senso e che passi da una nuova consapevolezza: ovvero che una direttrice di marcia, ragionevole e proficua, per le policies italiane è quella che cerchia in rosso la geopolitica mediterranea come nuovo fattore di interesse nazionale.

Il quadro complessivo del Mediterraneo, come noto, è mutato radicalmente: logica e dinamiche sono diametralmente opposte a quelle riscontrate durante la Guerra Fredda. Lo dimostrano i vari e articolati processi in corso dettati da super players come Cina, Usa e Russia (ma senza dimenticare Iran, Turchia, Francia e Germania) che meriterebbero da parte italiana una diversa valutazione.

Il Mediterraneo è da sempre stata l’area di interesse e di intervento per il nostro paese, non solo per questioni geografiche e storiche ma anche per via di alleanze ed equilibri. L’Italia è un molo naturale piazzato nel mezzo del Mare Nostrum: Roma in passato l’ha inquadrato sia come zona esclusiva di rapporti e compromessi col mondo arabo, sia come sfera di influenza per aree di primario interesse (Libia e Balcani).

Lecito chiedersi quale sarà la postura dell’Ue sulla politica estera nel Mediterraneo. E, un attimo dopo, quale sarà il ruolo che vorrà svolgere l’Italia se deciderà di uscire dal cono d’ombra in cui si trova per l’eccessiva leggerezza con cui ha intrecciato talune relazioni che non l’hanno portata ad elaborare una strategia che parta dalla geopolitica mediterranea come nuovo fattore di interesse nazionale.

Aprire l’orizzonte è utile al ragionamento. Da un lato l’accordo Abrahams fra gli Emirati Arabi e Bahrain con Israele traccia tout court una ridefinizione degli alleati e degli avversari in un Medio Oriente ormai allargato, dove player come Israele, Uae, Bahrain e in prospettiva gli altri Stati del Golfo si pongono in una chiara orbita americana. Quadro a cui fa da sfondo l’asse iraniano e la Turchia islamista da un lato, con Russia e la Cina dall’altro.

In questo quadro d’insieme l’Italia gravita in una assurda posizione interlocutoria, talmente densa di incertezze e scarsa programmazione da essere stata sorpassata dalla Turchia in Libia, dove aveva l’obbligo morale di recitare un ruolo diverso, anche e soprattutto in considerazione del peso specifico di un asset strategico come Eni, passando per Enel che vende 50% di Open Fiber ad un fondo australiano (fatto che denota un’assenza di strategia d’insieme).

Risalendo la dorsale adriatica le criticità aumentano al cubo, se possibile. L’Adriatico sarà il terminale della nuova Via della Seta, dopo Cosco al Pireo. Da un lato l’Italia ha bisogno di acquirenti esteri del proprio debito pubblico, ma dall’altro è pur vero che se i cinesi diverranno un acquirente privilegiato si porrà allora il problema della nostra collocazione internazionale: il rischio dello schiacciamento geopolitico verso oriente a quali conseguenze espone l’Italia? Il ruolo cinese di foraggiatore di strutture, anche se apparentemente silente, è centrale nella dinamiche che si estendono oltre il Caucaso, con un impatto preciso sugli scenari nel Mare Nostrum.

Inoltre, il caso libico è calzante per sottolineare le deficienze italiche. La traccia imposta da Erdogan non solo allo scacchiere libico ma all’intero versante euromediterraneo produce l’Italia come il principale perdente. Turchia e Qatar hanno firmato un nuovo accordo militare con Tripoli. Il Qatar finanzierà i centri di addestramento militare istituiti in base all’accordo. Un centro di coordinamento tripartito verrà istituito a Misurata, in Libia. A Misurata verrà allestita anche una base navale turca.

Il porto di Misurata sarà a disposizione delle forze armate turche per i prossimi 99 anni, assieme alla base aerea di Al Batiya, dove sono schierati i droni turchi e i sistemi anti aerei. Una mossa dettata dall’esigenza turca di fortificare la propria influenza in Libia, con una presenza militare precisa e più densa. Navi da guerra e sottomarini saranno schierati nel paese anche nella prospettiva di una contrapposizione con Cipro e Grecia nel Mediterraneo orientale.

La Grecia come è noto ha raggiunto un accordo con l’Egitto per la Zona economica esclusiva, e ha incassato anche l’appoggio della Francia, dopo quello di Israele e Usa, nel dossier energetico. Ma a pagare il maggior dazio potrebbe essere proprio l’Italia, la cui posizione naturale in Libia è stata occupata da Ankara.

Il dossier energetico che si sta intrecciando attorno al gasdotto Eastmed, quello che condurrà il gas da Israele al Salento, ha cementato nuove partnership tra Israele, Egitto, Grecia, Cipro ma con l’Italia ancora in palese ritardo per via del suo ruolo subalterno alla Turchia. Quella stessa Turchia che è rifugio della Fratellanza Musulmana e degli intrecci obliqui con il terrorismo dell’Isis. Quella stessa Turchia che ha minacciato di aprire il fuoco sulla nave Saipem dell’Eni.

La partecipazione dell’Italia al nuovo Forum del gas dovrebbe essere propedeutica, così come gli altri players stanno facendo, ad una nuova stagione che permetta agli asset nazionali di espandersi e produrre utili. Senza restare nel chiuso del piccolo cabotaggio che conduce solo ad un inutile isolamento, come dimostra la liberazione di Silvia Romano, avvenuta per intermediazione dei servizi turchi.

Per cui alla luce di tale scenario, occorre che nuove linee guida si impongano con urgenza alla politica estera italiana, nella consapevolezza che oltre food e moda è la geopolitica mediterranea ad essere il nuovo fattore di interesse nazionale per l’Italia.