Diritti

Dalla casa popolare al campo rom, ecco perché la scelta di Fadìla non va giudicata

Fadìla ha 32 anni. Nel campo rom c’è nata e lì sono nati anche i suoi genitori. Il campo è la sua casa, la sua vita, la sua protezione, la sua maledizione, il suo destino. Oggi ha ricevuto le chiavi della nuova casa popolare dove dovrebbe trasferirsi. Negli ultimi due anni tanti suoi parenti sono passati dal campo alla casa popolare. E sono felici. Anche Fadìla ieri era felice. Adesso invece è in preda a una crisi di panico. Ha deciso: butterà quelle chiavi. Ha scoperto che il campo dove vive è anche la sua catena.

Facciamo un passo indietro di 60 anni.

Aprile 1961: Ervin Goffman, sociologo canadese, pubblica una raccolta di saggi dal titolo “Asylums”, divulgando i risultati di una ricerca condotta all’interno di una clinica psichiatrica di Washington. Lo scopo dell’indagine è quello di analizzare il mondo dei pazienti – circa 7.000 – e comprendere come questi vivessero soggettivamente la propria condizione di internati. Per indicare questa realtà, ed altre simili dove persone sono concentrate in luoghi chiusi e istituzionali, perché ritenute outsider dalla società, Goffman conia il termine di “istituzione totale”.

Sei anni prima di “Asylums” il medico Franco Basaglia aveva ricevuto l’offerta di sostituire il direttore del manicomio di Gorizia morto improvvisamente in un incidente stradale. Da Gorizia iniziò una dura battaglia per riconsegnare ai pazienti la dignità perduta. Ordinò di ridurre l’uso dei sistemi di contenimento e di abbattere quei muri che separavano la realtà manicomiale dal mondo esterno. Organizzò la pubblicazione di un giornale interno alla struttura dove venne aperto uno spaccio ed un parrucchiere. Per qualcuno si aprirono i cancelli del manicomio e la possibilità di iniziare, per la prima volta, a esercitare una professione regolarmente retribuita.

Ma Basaglia non si limitò ad abbattere steccati, cancelli e sbarre: oltre a eliminare le serrature sulle porte, incoraggiò i pazienti ad assumere il potere. Furono loro stessi ad abbattere le barriere e i muri che li tenevano prigionieri.

Se Goffman fu il primo a parlare di “istituzionalizzazione” in spazi chiusi, Basaglia fu il primo ad introdurre e sperimentare il valore della “de-istituzionalizzione” al di fuori di questi spazi.

Se Goffman vivesse oggi, probabilmente, oltre ai manicomi, alle caserme, ai conventi, ai campi di concentramento, includerebbe tra le “istituzioni totali” anche molti dei campi creati dalle istituzioni per concentrare su base etnica persone ritenute “indesiderabili”. Spazi contenitori dove condannare a vita un’”umanità in eccesso”, dai diritti amputati e dalla cittadinanza “imperfetta”.

È sufficiente, in un esercizio mentale, sostituire la parola di Goffman “internato” con quella di tanti amministratori locali: “abitante del campo” per evidenziare la potenza dell’esclusione sociale di un insediamento formale. Come gli internati di Goffman, anche i rom collocati negli insediamenti monoetnici sono uomini senza diritti, oggetto di una violenza originaria da parte del sistema sociale, esclusi dalla produzione, ai margini della vita associata e spinti in uno spazio recintato più per il loro scarso potere contrattuale. A differenza del manicomio, in cui però è lo psichiatra che sancisce l’esclusione, nel caso dei campi rom è l’amministratore di turno, attraverso le Forze dell’Ordine o attori del terzo settore. Il manicomio prima di Basaglia è stato per alcuni versi un parcheggio sociale giustificato dalle gabbie “scientifiche” della malattia mentale. Che cos’altro è un campo rom della periferia se non un parcheggio sociale dove contenere una comunità socialmente invisa e priva de quelle risorse considerate come rilevanti dalla società?

Un approfondimento di ciò lo troviamo in “Asy(s)lum”, l’ultima ricerca curata da Associazione 21 luglio.

Leggendo il passato, comprendiamo allora come Fadìla non andrebbe giudicata. E il suo gesto non andrebbe neanche benevolmente letto come riferito a una cultura irriducibilmente incapace di inclusione. La vita condotta da Fadìla dalla nascita in uno spazio chiuso come il campo rom le ha prodotto ferite nel corpo e nella mente che è necessario curare. Ha sì bisogno di una casa, di un lavoro, di un aiuto concreto per passare dal campo alla casa. Ma forse Fadìla ha ancor più necessità di un processo de-istituzionalizzante che l’aiuti a riscoprire sé stessa come individuo, come soggetto capace di desiderare, di rivendicare, di affermare la sua individualità di donna, di moglie, di madre. Tutto ciò, per quanti redigono e attuano piani di superamento dei campi rom, bisognerebbe iniziare ad essere considerato.