Società

Coronavirus, ha ragione Crisanti: un Paese senza rispetto dei suoi morti non è un Paese normale

Tagliente come sanno essere solo i satirici, Ellekappa disegna due personaggi. Uno dice all’altro: “Quasi mille morti” e l’altro “Taci un attimo, fammi sentire cosa possiamo fare a Natale”. Questo amaro scambio di battute sintetizza meglio di ogni altro discorso lo svilimento morale a cui stiamo assistendo in questi giorni nel nostro Paese.

Difficile dire in che misura le richieste di maggiore “libertà” vengano dal basso o invece da certi opinionisti che si autonominano portavoce di sentimenti popolari, che forse gran parte del popolo nemmeno condivide. In ogni caso ha davvero ragione il professor Andrea Crisanti quando dice: “Parlare di sci quando ci sono 600 morti al giorno non è da paese normale”. E adesso che sono 1000?

Se da un lato c’è chi evoca lo spettro della morte per fame, dall’altro c’è chi tace o si nasconde dietro dati tecnici, numeri statistiche. Con tutto il rispetto per chi sta soffrendo la terribile crisi economica e che deve essere supportato a tutti i costi, non è ancora morto nessuno per fame, mentre per mano del virus sì e sono tanti, molti di più di quanto pensassimo durante la sbornia estiva.

Il problema è però che chi difende le scelte del governo, non riesce ad andare oltre a fredde comunicazioni di sevizio, a snocciolare numeri e progetti. Questa pandemia ha senza dubbio degli aspetti clinici e tecnici che vanno assolutamente risolti, ma poiché per risolverli al meglio occorre la collaborazione di tutti, soprattutto dei cittadini, occorre allora coinvolgerci tutti anche sul piano emotivo.

Purtroppo non si è sentito nessun politico o comunicatore istituzionale fare appello al senso di pudore e di rispetto che dovremmo provare tutti di fronte a questa tragedia che ci sta colpendo. Come si può invocare l’idea di “comunità”, se non riusciamo a provare un minimo di pietas davanti alla morte dei nostri concittadini e al dolore dei loro cari?

Essere costretti, complici anche molti giornalisti, ad ascoltare dibattiti sul numero di persone con cui si può cenare a Natale, sul diritto allo sci, per non parlare di certi richiami pelosi allo spirito cristiano mentre si invoca lo shopping, sinceramente è tanto surreale quanto triste. Come possiamo parlare di senso di comunità ed essere così indifferenti nei confronti degli altri? Ecco di cosa parlava Papa Francesco, quando evocava la “globalizzazione dell’indifferenza”.

Chiusi nelle nostre bolle impermeabili, rischiamo di inaridire ogni flusso di empatia. Tutto accade e ruota attorno a noi come singoli, non come comunità. Il modello consumistico ci ha spinti sempre di più verso un edonismo e un individualismo al limite dell’autismo. L’altro non ci interessa più, non è di nostra competenza. Se non è un nemico, una minaccia – come nel caso degli stranieri per qualcuno – nel migliore dei casi è insignificante.

Ecco allora che tutto appare normale e si vuole continuare a vivere come se niente fosse accaduto, niente accadesse. Chi pretende di non rinunciare a nulla lo fa perché non percepisce ciò che gli sta attorno, non lo vuole fare suo, perché questo richiederebbe farsi carico dei problemi degli altri, che sono gli stessi nostri. Più semplice rinchiudersi e guardare dalla fessura solo ciò che ci conviene.

Ecco però dove sta il vuoto di valori e quindi di politica: nel fatto che nessuno sia capace di alzarsi e promettere “sangue, sudore e lacrime” in nome di un ideale più alto dell’”io”, il “noi”. Fare appello allo spirito di gruppo e volgere lo sguardo al domani, a quando la battaglia sarà finita. Se questo non accade, è davvero finita la politica, fallita la comunità e si è oscurato ogni futuro.