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1945: gli Usa entrano nell’Onu. Dopo il calvario Trump, Biden saprà rianimare il multilateralismo?

Il multilateralismo va forte, almeno come anniversari, anzi per ora solo come anniversari. Abbiamo da poco ricordato il centenario della prima riunione, il 15 novembre 1920, dell’Assemblea generale della Società delle Nazioni che è ora di celebrare il 75° anniversario del voto con cui il Senato diede via libera, il 4 dicembre 1945, all’ingresso degli Stati Uniti nelle Nazioni Unite – 65 voti a favore e 7 contrari, in un’assemblea che contava allora 96 membri: Alaska ed Hawaii non erano ancora Stati dell’Unione.

Un bel progresso rispetto a 25 anni prima, quando il Senato non aveva voluto l’ingresso degli Usa nella Società delle Nazioni, che pure errano una creatura del loro presidente Woodrow Wilson. L’Onu era un’idea germogliata nei momenti più bui della Seconda Guerra Mondiale, quando tutta l’Europa continentale era sotto il giogo nazi-fascista e il riscatto delle democrazie era tutt’altro che sicuro. La dichiarazione di Londra è del 12 giugno 1941, quasi contemporanea alla prima stesura del Manifesto di Ventotene, in cui Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, insieme ad Eugenio Colorni, tracciavano dal confino dell’isola nel Tirreno il progetto di un’Europa unita.

Le Nazioni Unite furono realtà in coincidenza con la fine del conflitto. L’integrazione europea richiese più tempo per decollare, attraverso la Ceca e la Cee, fino all’Unione europea. Ma né l’Onu né l’Ue sono finora state all’altezza degli ideali che ne avevano accompagnato la nascita e gli esordi e delle speranze che avevano suscitato, anche se non vanno dimenticati i risultati positivi ottenuti.

Gli ultimi quattro anni, poi, sono stati un calvario per le organizzazioni internazionali multilaterali, inter-governative o sovra-nazionali che siano. Nel nome di una asserita e presunta superiorità degli Stati Uniti su tutti i singoli Stati di questo mondo, Donald Trump ha svincolato gli Usa dal rispetto delle regole del multilateralismo nella lotta al cambiamento climatico – gli Accordi di Parigi, abbandonati – e nel commercio internazionale – l’Organizzazione del commercio mondiale, regolarmente ignorata -; li ha portati fuori da Agenzie dell’Onu come l’Unesco e l’Oms; è stato fautore della Brexit e ha sempre guardato con ostilità all’Unione europea; ha denunciando l’uno dopo l’altro gli accordi per il disarmo, a partire da quello sul nucleare con l’Iran, indebolendo l’architettura della sicurezza globale.

Dal 20 gennaio, appena insediato alla Casa Bianca, Joe Biden, 46° presidente degli Stati Uniti, intende cancellare alcune delle decisioni più negative del suo predecessore: uno dei suoi primi atti sarà il riportare gli Usa negli Accordi di Parigi sul clima. E il tono delle conversazioni telefoniche avute nei giorni scorsi con i leader dei Paesi Ue e delle Istituzioni europee e atlantiche lascia presagire un ritorno a un’atmosfera di cooperazione e di amicizia in un contesto di solida alleanza, anche se non mancheranno momenti di confronto su singoli temi specifici.

A rivitalizzare il multilateralismo, però, non basterà qualche marcia indietro di un singolo Paese, per quanto importante. Bisogna vivere la consapevolezza che vi sono sfide, come il clima e adesso la pandemia, ma anche la crescita e l’eradicazione della povertà, la sicurezza e il rispetto dei diritti, che possono essere vinte solo con un impegno collettivo e globale. E bisogna volere rendere più efficienti gli strumenti della consultazione e della cooperazione internazionali, quelli informali come il G7 e il G20 e quelli più strutturati come l’Onu e, ancora di più, l’Ue.