Società

Coronavirus, la realtà è molto complessa: meglio negare tutto. E passa la paura

di Giusy Cinquemani

Forse è normale, per le logiche economiche non per gli umani che soffrono, trascurare i fenomeni quando sono di piccole dimensioni, come le malattie rare per esempio, su cui non si riesce a fare ricerca per mancanza di fondi, oppure addirittura sfruttare certe tendenze patologiche degli umani. Lo sfruttamento della tendenza alla dipendenza forse non occorre argomentarlo.

A questa se ne affianca un’altra, oggi alla ribalta. La tendenza all’utilizzo di un meccanismo di difesa noto come negazione o diniego. Meccanismo di difesa di cui ogni umano è corredato e a cui può fare ricorso, quando la realtà esterna o interna non gli piace e su cui poggia il fenomeno che per comodità definiamo “negazionismo”. Ognuno di noi può farvi ricorso – perché sempre siamo in balia del vivere un’esperienza spiacevole – o evitarlo. Il problema, come questa pandemia dimostra (in relazione al virus e a tutti i fenomeni correlati), è il ricorso massiccio a tale modalità difensiva, la dimensione.

La dimensione trasforma un focolaio in una epidemia, un’epidemia in una pandemia, un gruppo in una massa, un tratto in un disturbo e un disturbo in una struttura patologica. E quando i fenomeni cambiano di dimensioni cambiano anche di forma e qualità. Una cosa è un caso umano che parla di complotti internazionali dentro uno studio medico o psichiatrico, un’altra è quando i casi umani sono milioni e parlano attraverso la rete e i social.

La rete e i social in questo caso, in qualunque modo vada la vicenda della pandemia da Covid19, sono e rimarranno i wet markets da dove sono partiti e partiranno le attuali e le successive catastrofiche infodemie. Perché questi sono i posti dove il vero col falso, come nei mercati dell’umido, il vivo col morto, il putrescente e il fresco, convivono frammischiati. E non sarebbe un problema se le dimensioni di questa massa informe non avesse preso le dimensioni di quella che viene definita “infosfera”.

Un fenomeno, da tempo, segnala il pericolo crescente della difficoltà a differenziare il vero dal falso, il vivo dal morto, la crescita abnorme in luoghi dove la verità dei fatti dovrebbe essere fuori discussione: il giornalismo, ma anche in luoghi inconsueti quali le produzioni artistiche e il cinema.

Negli ultimi anni c’è stato un proliferare di documentari, docufilm e biopic, nonché di film che vantano di essere “tratti da una storia vera”. Produzioni che, anziché prediligere la creatività di un regista, mirano, attraverso materiale originale e fiction, alla ricostruzione fedele di un fatto storico o della vita di un personaggio famoso.

Perché il cinema, il figlio prediletto dell’onirico, sente il bisogno di dichiarare la sua discendenza da una realtà esterna, materiale, dalla “storia vera”? Qual è il valore aggiunto del film “tratto da una storia vera”? Perché il cinema si è dato il compito di aiutare lo spettatore nel discriminare il vero dal falso, di informarlo su fatti realmente accaduti? Cosa cerchiamo? Cosa ce ne dobbiamo fare di queste ulteriori informazioni, di queste prove? E a cosa ci serve tutta questa “realtà”?

E soprattutto, come scrivono Ferro e Civitarese: “Come e su che basi (…) decide di leggere certi elementi del dialogo esclusivamente nei termini della realtà esterna e altri invece in quelli della realtà psichica, del transfert, del sogno. Qual è il criterio?” (Ferro e Civitarese, 2015, p. 98). Nelle stanze della psicoanalisi, dove la negazione e il diniego sono stati scoperti, si sceglie di guardare alla realtà interna. Fiduciosi che l’accoglienza di questa realtà interna porti ad un maggiore contatto con quella esterna.

Fuori da lì, come decidiamo se un’informazione è vera o falsa? L’informazione, per quanto essa possa aspirare ad una completezza, si configura sempre come parziale, frammentaria ed incompleta. Informazione è una notizia al tg, una monografia, un articolo su internet, un video, ma informazione è anche un odore, un’immagine, un suono, un borborigmo, una sensazione di calore, un moto di rabbia, un’aritmia percepita dal e nel somatopsichico.

Chiaramente sono informazioni di tipo diverso: le prime, piuttosto strutturate, coinvolgono uno-due sensi, visione e udito; le altre molto meno strutturate, chiamano in causa tutti i sensi, nonché quello per sentire le emozioni, l’angoscia, la capacità di sentirsi, sognare e pensare e insieme fanno un’esperienza.

Possiamo dire allora che trovarsi immersi in un magma informativo, che ci arriva in forma indiretta, non esperienziale, incrementa e alimenta le aree e i funzionamenti psicotici, l’ambiguità e l’impossibilità a discriminare il vero e il falso? Possiamo dire che da tempo si stava cercando di rispondere a questa condizione, che si configura come una pervasiva perdita dei confini fra reale e irreale, vero e falso, sonno e veglia con dosi massicce di “realtà” urlata? Possiamo dire, trovandoci nella tempesta perfetta (solo la prima delle possibili) che tale cura di realtà urlata non funziona? Perché più urli, più non ti sento, più mi fai paura, più ricorro a difese più potenti.

Ci difendiamo, semplifichiamo, neghiamo un pezzo, ne rifiutiamo un altro, ci affidiamo ad una visione del mondo che qualcuno offre già confezionata, si sceglie l’opzione paranoica del complotto, bella, semplice, deresponsabilizzante. E passa la paura.