Società

In Italia l’epurazione antifascista è fallita molti anni fa. E oggi ne paghiamo le conseguenze

Il 20 novembre del 1945 si apriva a Norimberga il “processo dei principali criminali di guerra” a 24 gerarchi del Terzo Reich, responsabili dello sterminio di undici milioni di persone, di cui sei milioni ebrei, assassinati durante la Seconda Guerra Mondiale. Gli Alleati vincitori della guerra (Usa, Urss, Francia e Gran Bretagna) allestirono un tribunale militare internazionale (IMT) ma non si accontentarono soltanto di organizzare il processo, vollero che fosse celebrato in una città simbolo del regime nazista.

In tutto, si svolsero 218 udienze nell’aula numero 600 del tribunale distrettuale di Norimberga-Fuerth. Tra i 250 giornalisti e scrittori accreditati c’era un giovane ma acuto Willy Brandt che scrisse quanto fosse indispensabile fare i conti coi boia nazisti, “non farlo sarebbe stato uno schiaffo al senso di giustizia universale”. Il processo si concluse il primo ottobre del 1946. Dieci degli undici condannati a morte furono impiccati il 16 ottobre 1946, tranne Hermann Goering che si suicidò la notte prima. Ci furono successivamente altri dodici processi contro criminali di guerra considerati meno importanti dei 24, uno di questi fu specifico, perché coinvolse i famigerati dottori accusati di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità.

In Italia, invece, niente di simile. Anzi. Nel dicembre del 1948 ci furono “incidenti tra gli studenti di medicina” alla Sapienza di Roma. Erano proteste sacrosante contro il celebre endocrinologo Nicola Pende, tornato ad insegnare Patologia generale come se nulla fosse accaduto, come se non fosse stato il più illustre razzista italiano. Già. Dieci anni prima, sul Giornale d’Italia del 14 luglio 1938 era stato pubblicato un articolo anonimo intitolato “Il fascismo e i problemi della razza”, quello conosciuto come “il Manifesto degli scienziati razzisti”. I nomi dei redattori del manifesto furono divulgati il 25 luglio 1938, con un comunicato del Partito nazionale fascista in cui Achille Starace, segretario del Pnf, annunciava tronfio che aveva ricevuto “un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle Università italiane, che hanno sotto l’egida del Ministero della cultura popolare redatto o aderito alle proposizioni che fissano la base del razzismo fascista”.

I nomi erano quelli di cinque assistenti universitari non molto conosciuti (Guido Landra, Lidio Cipriani, Lino Businco, Leone Franzi e Marcello Ricci), più quelli di cinque professori ordinari, questi sì abbastanza noti: Nicola Pende, Sabato Visco, Edoardo Zavattari, Franco Savorgnan, Arturo Donaggio. Furono costoro a legittimare, con l’alibi della ricerca scientifica, la lunga stagione antisemita del regime mussoliniano che costò la vita a oltre 8mila ebrei italiani, a altre migliaia di ebrei e zingari stranieri che si erano illusi di scampare alle deportazioni.

L’ira degli studenti dell’anno accademico 1948/1949 era giustamente motivata: com’era possibile, infatti, che il professor Pende fosse stato scagionato dall’accusa più grave, “apologia della politica fascista nel campo razziale”, nonostante le smaccate evidenze? Mentre in Germania le epurazioni nei confronti dei nazisti procedevano severamente, da noi avveniva l’esatto contrario. Peggio. All’inizio del 1949 rabbia, costernazione e sbigottimento degli studenti e di una buona parte dell’opinione pubblica nulla poterono contro il ritorno in cattedra di Sabato Visco, reintegrato all’insegnamento di Fisiologia generale. Egli era stato capo dell’Ufficio Razza del Ministero della cultura popolare, dunque non solo un teorico razzista, ma un burocrate delle persecuzioni razziali. In realtà, come ricorda lo storico Giovanni Sedita nel suo saggio “L’accademia razzista” pubblicato nel 2008 sul numero 5 della rivista Nuova Storia Contemporanea, “Pende e Visco si ricongiungevano con altri due professori firmatari che già nel 1946 erano tornati in cattedra alla Sapienza: Edoardo Zavattari, docente di Zoologia, e Franco Savorgnan, professore di Demografia”.

Insomma, l’epurazione antifascista era fallita: inutili i quattro procedimenti contro gli ordinari della Sapienza, addirittura contro gli altri sei firmatari del Manifesto non si era neanche potuto procedere. Per quattro anni, dal 1944 al 1948, l’epurazione antifascista si era smarrita, altro che resa dei conti con il fascismo. Era stata una vera e propria resa. E basta. L’ex senatore del Regno, Pende, e l’ex deputato Visco, consigliere nazionale e console della milizia nazionale, poterono godere dell’alto grado di iniquità che caratterizzò il fallimento dell’epurazione. Galante Garrone fu sintetico nel ricordare quanto la presunzione di nettare tutta la pubblica amministrazione, nella massa, fu solo una sceneggiata, in quanto “ci si accanì (…) contro gli uscieri”, ma non si vollero “o non si poterono colpire gli uomini veramente colpevoli e le vecchie strutture dello Stato e della società”. Oggi ne paghiamo le conseguenze, politiche e amministrative.