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La Tunisia stringe il bavaglio: nel report Amnesty i casi giudiziari contro la libertà d’espressione

In Tunisia dal 2018 almeno 40 blogger, amministratori di pagine Facebook, attivisti politici e difensori dei diritti umani sono stati incriminati sulla base di leggi repressive e obsolete dell’era di Ben Ali, solo per aver criticato online autorità locali, forze di polizia o altri rappresentanti delle istituzioni.

La denuncia arriva da Amnesty International, che pubblica oggi una dettagliata ricerca sul bavaglio sempre più stretto alla libertà d’espressione nel paese nordafricano.

La maggior parte dei procedimenti giudiziari non è terminata con condanne, ma le convocazioni per interrogatori, le incriminazioni e i processi hanno dato luogo a un clima persecutorio e intimidatorio.

La situazione è peggiorata soprattutto nell’ultimo anno. Il 18 ottobre 2019 il ministero dell’Interno ha diffuso una nota in cui si annunciavano “azioni legali contro coloro che intenzionalmente offendono, mettono in discussione o accusano falsamente” i suoi dipartimenti. La nota sottolineava che “recenti ripetute dichiarazioni da parte di persone di diversa affiliazione, pubblicate da alcuni siti e organi d’informazione sono da considerarsi pericolose e possono mettere a rischio la sicurezza dello stato”.

Solo nell’ottobre di quest’anno, almeno cinque attivisti sono stati sottoposti a interrogatorio per aver criticato online una proposta di legge che rafforzerebbe l’impunità delle forze di polizia o aver denunciato il comportamento di queste ultime.

Ad esempio, il 7 ottobre Myriam Bribri è stata convocata dalla polizia giudiziaria di Sfax e interrogata su un post pubblicato su Facebook nel quale criticava l’operato della polizia. Incriminata per “danno intenzionale alle persone o disturbo alla loro quiete” in base all’articolo 86 del Codice delle telecomunicazioni, reato per cui sono previsti fino a due anni di carcere, è in libertà provvisoria in attesa del processo, che dovrebbe svolgersi il 14 dicembre.

Il 12 ottobre è stata la volta di Imed Ben Khoud, un attivista di Kerouane, arrestato per aver condiviso su Facebook una vignetta in cui gli agenti di polizia erano raffigurati come cani e il ministro dell’Interno era intento a costruire un canile. Anche se è stato rilasciato poche ore dopo, l’inchiesta nei suo confronti va avanti, anche nel suo caso per violazione dell’articolo 86.