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Coronavirus, come gli Stati del Golfo ne hanno approfittato per reprimere il dissenso

In decine di stati la pandemia da Covid-19 è stata il pretesto per introdurre norme liberticide, limitare la libertà d’informazione e mettere il bavaglio al dissenso: quelli del Golfo non hanno fatto eccezione.

Il significato dell’espressione “fake news” è stato completamente rovesciato e utilizzato strumentalmente per colpire chiunque mettesse in dubbio l’efficacia della risposta alla pandemia o l’esattezza dei dati ufficiali.

Da marzo, in tutti gli stati del Golfo è stato un susseguirsi di convocazioni, interrogatori, arresti, processi e condanne nei confronti di utenti dei social che avevano commentato negativamente il comportamento delle autorità politiche e sanitarie.

In Bahrein, a metà marzo, l’ufficio della procura generale ha avvisato che “[saremo] inflessibili contro chiunque pubblicherà o contribuirà alla diffusione di notizie false e voci incontrollate”. Il primo a farne le spese è stato un uomo che aveva annunciato sui social che sarebbe stato introdotto lo stato d’emergenza.

Sempre in Bahrein e sempre a marzo il ministero dell’Interno ha annunciato l’assunzione di 16 operatori col compito esclusivo di “monitorare e rintracciare account offensivi”. Di lì a poco sono state aperte 60 indagini che hanno portato al rinvio a giudizio di 40 utenti dei social per “minaccia alla pubblica sicurezza”.

Provvedimenti analoghi sono stati presi in Kuwait: il 19 marzo l’ufficio della procura generale ha annunciato che si sarebbe lavorato “giorno e notte per sopprimere le notizie false sul coronavirus (…) riducendo il numero degli arresti per i casi rinviabili”. Tra i primi a essere incriminati, un utente che aveva “pubblicato notizie false sulla rapida diffusione del coronavirus”, peraltro in Egitto e non in Kuwait. Nel giro di alcuni mesi sono stati messi sotto accusa 25 portali di notizie. Ad aprile l’agenzia di stampa statale ha avvisato che “la diffusione di informazioni non approvate su network privati come Whatsapp saranno punite con pene da tre a 15 anni di carcere”.

In Oman il 22 luglio l’account Twitter dell’ufficio della procura generale ha annunciato la condanna a sei mesi di carcere e a una multa equivalente a oltre 2.000 euro per una persona che aveva “pubblicato materiale dannoso per l’ordine pubblico, incitando alla divisione sociale e allo chauvinismo regionale [sic]”, relativo ad alcuni cittadini colpiti dal coronavirus che non avrebbero ricevuto cure mediche gratuite.

Le autorità dell’Arabia Saudita hanno applicato alle “false notizie” sulla pandemia l’articolo 6 della Legge sui reati informatici, che punisce con la pena massima di cinque anni di carcere e una multa equivalente a quasi 800.000 euro “chiunque produca, prepari, trasmetta o archivi materiale che leda l’ordine pubblico, i valori religiosi, i sentimenti dell’opinione pubblica o la privacy”. Numerose persone sono state arrestate “per aver ridicolizzato la crisi del Covid-19” e una per aver diffuso in rete l’immagine di scaffali vuoti nei negozi.

“Diffondere voci sul virus mediante i social media, anche se per mera ignoranza sul tema, sarà considerato un reato penale”: questo l’annuncio fatto il 16 marzo dal procuratore generale degli Emirati arabi uniti. Il 1° aprile la polizia dell’emirato di Ajman ha minacciato “conseguenze penali per chi diffonda dicerie inaccettabili sul virus”, come ad esempio “l’affermazione che il contagio può avvenire attraverso uno starnuto fino a otto metri di distanza”.

In sintesi, la pandemia è un nuovo pretesto per rinverdire vecchie tattiche repressive.