Cronaca

Covid, gli operatori 118 della prima zona rossa girano i paesi per sensibilizzare chi ancora non crede: ecco i racconti di cos’hanno visto nelle ore più drammatiche

La Croce Casalese di Casalpusterlengo ha organizzato un ciclo d'incontri: un modo per far prendere coscienza di quanto accaduto, ma anche uno stimolo a trovare nuove forze. Così David, Francesco, Ilaria, e tanti altri, ripercorrono con la loro voce quelle drammatiche prime settimane, quando "ancora non si capiva bene cosa stesse succedendo, ma già si vedeva una montagna di bombole d'ossigeno accatastate" fuori dagli ospedali

Per tutta l’estate il mondo è sembrato dividersi tra chi ha visto con i propri occhi l’effetto devastante del Coronavirus e chi no. Fra chi ha vissuto sulla propria pelle l’emergenza sanitaria che ci ha travolto il 21 febbraio (quando a Codogno è stato scoperto il Paziente 1) e chi – nonostante i numeri dei contagi e dei morti – è rimasto convinto che si trattasse di poco più di un’influenza.

Eppure l’epidemia è esistita ed esiste ancora. È anche per questo che la Croce Casalese di Casalpusterlengo, fin da subito in prima linea contro il Covid-19, ha organizzato già dallo scorso mese di luglio una serie di incontri per raccontare ai cittadini della ex Zona Rossa del Basso Lodigiano l’esperienza vissuta da operatori del 118 e volontari durante le drammatiche settimane di febbraio, marzo e aprile, quando l’Italia contava centinaia di morti al giorno. I primi due appuntamenti si sono svolti a Casale e Somaglia.

Incontri importanti, perché quello che è realmente accaduto lo raccontano persone vicine, del posto, che non hanno altro interesse se non quello di evitare che la storia si ripeta. Persone che si possono incontrare per strada, al supermercato e che come tutti si sono trovate al centro della pandemia, con le stesse ansie e le stesse incertezze, ma che con grande coraggio e professionalità sono scese in trincea fin dal primo minuto, in una situazione assolutamente confusa e sconosciuta, che rapidamente si è trasformata in pura emergenza.

“All’inizio non si capiva bene cosa stesse succedendo, sembrava una cosa circoscritta – racconta Francesco Moretti, istruttore – Poi nella notte tra venerdì 21 e sabato 22 è scoppiato il pandemonio. Interventi uno dietro l’altro, tempi biblici d’attesa al Pronto Soccorso di Lodi: è stato davvero impressionante vedere la quantità di bombole d’ossigeno che erano accatastate lì, una montagna di bombole d’ossigeno”. Si presume che il personale del 118 sia “abituato” a trovarsi di fronte a situazioni di una certa gravità. Ma il Coronavirus ha spiazzato anche i più esperti.

“Ciò che mi ha turbato e segnato, al di là della ben nota quantità di pazienti con sintomatologia grave, è stata anche la rapidità imprevedibile con la quale il quadro clinico peggiorava – ricorda Davide Orlandi, presidente della Croce Casalese – spesso si arrivava sul posto trovando pazienti anche giovani che saturavano 50 o 60, quando normalmente la soglia di attenzione sarebbe già sotto i 95. In poche parole stavano soffocando. Situazioni come queste, purtroppo, spesso evolvevano nel decesso del paziente prima ancora che venisse caricato in ambulanza. Noi stessi soccorritori percepivamo l’impotenza di fronte a questo virus”.

Anche Ilaria Bruschi, volontaria dal 2001 e istruttore dal 2004, racconta di aver visto scene strazianti, mai accadute in 20 anni di soccorso: “Eravamo arrivati al punto in cui si sapeva che chi andava in ospedale poteva finire in terapia intensiva e non farcela. E ho visto persone correre dietro l’ambulanza che portava via il proprio familiare. Ricordo in particolare questo episodio: avevamo già caricato un anziano che si era aggravato per patologie pregresse, eravamo pronti a partire. Abbiamo sentito un urlo in strada, da far gelare il sangue nelle vene: era la figlia del paziente, che ci ha chiesto di riaprire il portellone per salutare il papà. Aveva perso il marito pochi giorni prima e non aveva potuto vederlo un’ultima volta, perché non si poteva entrare negli ospedali”.

Le richieste d’aiuto si moltiplicavano, le persone non riuscivano a respirare, e gli ospedali della zona erano ormai al collasso, tanto che ambulanze correvano a sirene spiegate con i pazienti fino a Pavia. Ma nonostante tutta la paura, la tensione, la sofferenza e la morte, ci sono stati anche episodi belli, che hanno portato un po’ di speranza e fiducia nel futuro. Come l’intervento in una casa di Vittadone, frazione di Casalpusterlengo, per la nascita di una bambina. O il coraggio di una volontaria, Sonia Pezza, certificata da appena 10 giorni, che non si è tirata indietro e fin dall’inizio si è messa completamente a disposizione per combattere il Coronavirus. Altri volontari, per motivi personali, non se la sono sentita di dare la propria disponibilità durante l’emergenza.

Il personale del 118 ha rischiato molto in quei giorni: si lavorava quasi esclusivamente con pazienti Covid in piena Zona Rossa. Nonostante tutto ciò, solo il 16% dei soccorritori casalini è stato contagiato e sono stati necessari appena due ricoveri in ospedale. Segno che le precauzioni prese hanno funzionato. “Il 21 febbraio la misura di quanto sarebbe stata grave la situazione non ce l’aveva nessuno, c’era molta confusione – racconta Mauro Soldati, responsabile sicurezza, da 25 anni in servizio per il 118, prima a Milano Niguarda poi a Casale – dall’Istituto Superiore di Sanità ci dicevano che sull’ambulanza potevamo usare semplicemente la mascherina chirurgica. Ma tra di noi ci siamo detti: se è un Coronavirus come la Sars, adottiamo i vecchi protocolli del 2000. Dunque l’iper-protezione: tute, maschere Ffp3, visiere. Proteggersi troppo non avrebbe fatto male a nessuno, proteggersi troppo poco sarebbe stato sicuramente più pericoloso. E poi abbiamo fatto un grande uso del generatore di ozono per sanificare i mezzi dopo ogni intervento”.

E così già dalla mattina di venerdì 21 febbraio è partito il rastrellamento di mascherine dalle ferramenta della zona, ma ci sono state anche alcune aziende private che hanno donato le proprie scorte. “È stata bella la corsa alla solidarietà – continua Soldati – ricordo che era il periodo di Carnevale, andavamo al confine della Zona Rossa, a Guardamiglio, e al check point il titolare di un’impresa di pulizie ci portava da fuori disinfettante e Dpi (Dispositivi di protezione individuale), insieme a un vassoio di frittelle”.

Tanti racconti che oltre a far prendere coscienza di quanto accaduto, vogliono anche essere uno stimolo a trovare nuove forze. “Questo tipo di volontariato è un volontariato non semplice, psicologico, di formazione, impegnativo – conclude Ilaria Bruschi – Negli anni sono diminuite le persone che si sono rese disponibili. Certo, ci hanno fatto tutti i complimenti, siamo stati tutti eroi. Ma poi? Mi auguro che il nostro impegno abbia sensibilizzato, perché se non ci fossimo stati noi il sistema non avrebbe retto, eravamo noi ad andare a prendere in giro i pazienti e a fare primi interventi. Spero che le persone vengano a darci una mano”.