Cronaca

Roma, chi si oppone alle donne vittime di violenza nega loro il diritto a rinascere

Via da qui. Tre parole piccolissime con un immenso potenziale di violenza e disumanità se pronunciate all’indirizzo non di chi ci sta aggredendo ma, al contrario, di chi ha bisogno di empatia, aiuto, comprensione. Le hanno dette, chiare e forti, alcuni abitanti romani di una palazzina del quartiere della Cassia, uno dei tre immobili sottratti alle mafie inseriti nell’ultimo bando del Comune di Roma e della Regione Lazio destinato a supportare progetti sociali, dove dovrebbero alloggiare alcune donne con relativi bambini e bambine vittime di violenza da parte di mariti e compagni, seguite dall’associazione Telefono Rosa.

Un problema, quello della contestazione per la “fastidiosa” presenza di donne maltrattate, che già si era manifestato nei primi mesi del 2020 nel quartiere Parioli. Un bel mix di feroce calcolo economico (“la presenza di queste donne deprezza il valore delle case” – avrebbero commentato a sostegno della loro contrarietà) condito da un ferino apprezzamento della delinquenza a scapito della solidarietà. Alla domanda posta dalla presidente di Telefono Rosa, Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, se alle donne maltrattate fossero preferibili i mafiosi (quelli a quali sono stati sequestrati i beni) la risposta sembra sia stata “almeno quelli ci facevano divertire”. Più chiaro di così.

Una sintesi in linea perfetta per lo stile The Purge: i quartieri bene, puliti e ordinati, che una notte all’anno si trasformano in luoghi di carneficina, tornando poi all’alba alla routine di sorrisi finti e baciamano. I mafiosi sì, le donne violentate no. Un paradosso che dovrebbe essere evidente, eppure questa è la realtà: c’è una bella fetta di umanità che preferisce il contatto con gli autori di violenza piuttosto che con le vittime. Chi fa violenza è percepito come forte, superiore, potente: comunque, anche se delinquente, il violento emana autorevolezza, seduzione, esserne complici fa sentire altrettanto vincenti.

Si tratta di un meccanismo psicologico, individuale e collettivo, che si chiama colpevolizzazione delle vittime, un concetto recente, coniato negli anni ’70 dallo studioso William Ryan. La colpevolizzazione della vittima consiste nel ritenere chi è preda di una ingiustizia come parzialmente, o interamente, responsabile di ciò che le è accaduto. Ovviamente ci sono delle sfumature di colpa rispetto alla tipologia delle vittime, ma la certezza è che tra un uomo rapinato e una donna violentata nessuno penserà che l’uomo si è cercato la rapina, come in maniera esemplare, e senza tanti fronzoli, racconta questo video.

Hanno ragione da vendere, le donne di ogni età, cultura, provenienza sociale e geografica vittime di violenza a sentirsi in colpa: chi ha subìto violenza non è mai divertente. Il dolore respinge, la sofferenza è pesante da frequentare; servono empatia, tempo, disponibilità e ascolto, tutte caratteristiche legate alla relazione. Meglio adottare la strategia non impegnativa e superficiale del “ma fattela una risata”, assai in voga, e trasversale, di fronte alla misoginia e al sessismo.

Chi si sta opponendo alla presenza di meno di dieci donne, tra italiane e straniere (molto diverse tra loro ma accomunate dall’avere incontrato un uomo violento, a memento che la violenza contro le donne non risparmia nessun ceto e nessuna provenienza) testimonia quanto potenti ed efficaci siano stati i messaggi di egoismo, paura e individualismo degli ultimi decenni di neoliberismo culturale veicolati dalla politica, dai media e dai social, con rare voci dissonanti e assolutamente minoritarie.

Queste persone ci stanno dicendo che no, una donna vittima di abuso non ha diritto a rimettersi in sesto in una bella casa, circondata da quiete e armonia. Prendere nota, alla lista delle categorie indesiderate c’è una aggiunta: niente meridionali, ne*ri, ebrei, omosessuali, e, new entry, donne abusate. Del resto tutte le donne sono puttane, tranne mia madre e mia sorella, e anche di loro, poi, dobbiamo parlarne….