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“Noi, circondati dai coloni israeliani in Cisgiordania, resistiamo con la non violenza. Ci rifiutiamo di odiare il prossimo”

“Sono ventidue anni che cercano di cacciarci dalla nostra terra ma noi siamo come questi ulivi: abbiamo radici profonde”, spiega Daoud Nassar, palestinese di religione cristiana, che vive a dieci chilometri da Betlemme. Qui, vent'anni fa, la sua famiglia ha fondato Tent of Nations, una fattoria impegnata in attività educative e che accoglie volontari da tutto il mondo. "Così teniamo vivo il nostro diritto alla pace"

“Una sera ci fermarono lungo la strada che porta alla fattoria. Erano militari, i toni non erano dei più amichevoli: ci intimarono di scendere. Provai a calmare le mie figlie, spaventate, mentre cercavo di parlare con i soldati che ci puntavano contro i fucili. Fortunatamente la situazione non è degenerata e ci hanno lasciati andare”. Questo è solo uno degli episodi che Daoud Nassar, palestinese di religione cristiana, ha dovuto subire nella West Bank occupata dall’esercito israeliano. “Sono ventidue anni che cercano di cacciarci dalla nostra terra ma noi siamo come questi ulivi: abbiamo radici profonde”, afferma indicando gli alberi che circondano la sua proprietà. Siamo in Cisgiordania, a 10 chilometri da Betlemme. Qui circa vent’anni fa nasce il progetto Tent of Nations: “Una via non violenta di resistenza all’occupazione che porta ogni anno più di diecimila persone da tutto il mondo a visitare la nostra terra – racconta Daher, il maggiore dei fratelli – Non solo cristiani, palestinesi o occidentali. Ma anche israeliani, ebrei, musulmani o di altre confessioni”. Piantumazione degli ulivi, campi estivi giovanili per ragazzi, insegnamento dell’uso dei computer, tecniche di riciclo, apprendimento della lingua inglese a quelle donne che non possono avere un facile accesso all’istruzione. La famiglia Nassar da anni cerca di combattere a suo modo le restrizioni che Israele impone all’intera area: “Cerchiamo, nel nostro piccolo, di tenere vivo il nostro diritto come uomini di poter vivere in pace su questa terra”.

I tentativi di espropriazione – Gerusalemme non è lontana, eppure il paesaggio è radicalmente diverso da quello cittadino: check point, mura alte fino a quattro metri, filo spinato, guardie armate agli accessi delle colonie israeliane sulle colline. La divisione fisica lascia poco spazio all’immaginazione. È il cosiddetto Gush Etzion (Blocco di Etzion) di cui fa parte il maggiore degli insediamenti israeliani, Betar Illit, con i suoi 40mila residenti. La fattoria dei Nassar è situata sull’ultima collina non occupata. “Nel 1991 il governo israeliano dichiarò questa area territorio nazionale benché appartenga allo Stato palestinese; non ci volle molto prima che iniziassero gli espropri e le confische delle terre occupate attraverso cavilli legali – racconta Daoud – Ci provarono anche con noi – sorride – ricordo lo stupore dei funzionari quando portammo l’intera documentazione di ogni rinnovo dell’atto di acquisto della proprietà fin dall’amministrazione ottomana del 1916”. Sono passati quasi trent’anni tra appelli, rinvii e 180mila dollari di spese processuali. La causa è tuttora in corso.

Il nodo dell’espansione israeliana – Gli ultimi governi israeliani, presieduti da Benjamin Netanyahu, leader del partito conservatore Likud, hanno appoggiato l’espansione delle colonie nella West Bank occupata. Ed è stato proprio lui, Netanyahu, a chiedere alla ultime elezioni un “mandato chiaro” per annettere gli insediamenti allo Stato di Israele – ad oggi ritenuti illegali secondo i trattati Onu e il diritto internazionale. Punto nevralgico dell’accordo per la formazione del nuovo governo – con Benny Gantz del partito Blu e Bianco – l’annessione non verrebbe ostacolata dagli Stati Uniti di Donald Trump che aveva lanciato la “via americana” alla risoluzione del conflitto, il cosidetto “Accordo del Secolo”: Gerusalemme capitale con una cessione ai palestinesi nella parte est, annessione delle colonie e riconoscimento di uno Stato palestinese a cui Israele avrebbe ceduto alcuni territori al confine con l’Egitto. Un accordo duramente respinto dall’establishment di Ramallah.

“Rifiutiamo di odiare il prossimo” – “Vivere qui significa non poter costruire strutture alte più di 80 centimetri in altezza sulla tua proprietà fuori dalle città, non avere accesso ai servizi idrici ed elettrici”, spiega. Pannelli solari, cisterne per la depurazione dell’acqua piovana, ciclo di compostaggio dei rifiuti: con l’aiuto dei volontari la fattoria è diventata autosufficiente. Ma l’isolamento è imposto anche a livello di comunicazioni: l’accesso all’arteria principale che collega i vicini villaggi palestinesi con Gerusalemme è stata bloccata oltre dieci anni fa con massi e terrapieni. Questo, però, non ha fermato i volontari che ogni anno vivono per un periodo nella fattoria o vengono soltanto a portare la propria solidarietà. “Negli anni abbiamo subito da parte dei coloni minacce, danni alla proprietà, sradicamento di alberi – afferma Daoud – Nel 2013 l’esercito ha eseguito un ordine di rimozione sradicando un centinaio di alberi con i bulldozer”. We refuse to be enemies, c’è scritto su di una pietra all’ingresso della fattoria. “Molti palestinesi sono scoraggiati; per i giovani costruire una propria identità è sempre più complesso. Rifiutiamo di odiare il prossimo, anche chi ci opprime perché non crediamo che questo non porti a nulla; ci rifiutiamo, però, anche di sentirci vittime – precisa -; inoltre siamo saldi nella nostra fede cristiana che è al centro di questa resistenza non violenta. Credo – conclude – che un giorno la giustizia prevarrà”.

Video e foto di Marco Vesperini