Politica

A Roma la Raggi tenta il bis. Ma prima del merito voglio parlare del metodo

La sindaca Raggi si candida per il bis. Non è una mossa a sorpresa, visto che le grandi manovre della sua ricandidatura per le elezioni del 2021 erano state ampiamente annunciate dalle numerose sponsorizzazioni incassate nei mesi scorsi dai big del M5S, dal capo politico Vito Crimi, all’ex leader Di Maio, all’outsider Di Battista, fino al – pare – padre spirituale del MoVimento Beppe Grillo.

Ci sarà tempo per fare un bilancio dei suoi 4 anni e passa di consigliatura e vedere se i risultati raggiunti giustificano l’ambizione. Ma prima del merito – Raggi è stata una buona sindaca? – voglio parlare del metodo: è così che ci si candida in un Movimento che fino a qualche tempo fa si contrapponeva ai partiti tradizionali come portatore di una vera democrazia “dal basso”, con eletti definiti “portavoce dei cittadini” e con un orizzonte di governo che voleva essere un distillato di rispetto delle regole, trasparenza e democrazia diretta?

Il punto riguarda il limite dei due mandati, che oltre ad essere ancora vigente per Statuto, Regolamento e Codice etico del M5S, è anche un pilastro dell’identità pentastellata. Io personalmente trovo autolesionista per un Movimento che ha portato in Parlamento e nelle amministrazioni locali molte persone comuni, con scarsa o nessuna esperienza istituzionale, rimandare a casa dopo pochi anni chi magari ha lavorato bene, ma penso che il principio ispiratore sia giusto: evitare che la politica diventi una carriera, con il conseguente esercizio di potere lontano dalle iniziali “spinte propulsive”.

Ma se delle modifiche si rendono necessarie, dovrebbero essere gestite diversamente e molto più democraticamente. Anche perché il M5S non ha una lunga storia né un sistema di valori condivisi, e credo non si possa permettere di abbattere quei pilastri senza un dibattito – interno ed esterno – e senza una decisione di cambiare le regole presa collettivamente a monte, e di cambiarle per tutti, non “ad personam”.

L’autocandidatura di Raggi prima di qualsiasi modifica al regolamento, o quantomeno di una votazione degli iscritti su Rousseau, suona come una forzatura delle regole, che la previsione di un futuro passaggio di conferma sulla solita piattaforma non attenua. E l’ipotesi di una candidatura alla guida di una “lista civica” sarebbe paradossale: un escamotage degno dell’ipocrisia dei “politici politicanti”, contro cui i pentastellati si sono sempre scagliati.

“Siamo uguali ma diversi” ripeteva Nanni Moretti nel film Palombella Rossa, nei panni di un politico della sinistra in crisi di identità. Nessun contorcimento esistenziale invece sul fronte pentastellato, che nell’arco di un lustro si è rimangiato molte delle sue “stelle”, ma soprattutto la dimensione orizzontale, il lavoro condiviso dei tavoli e dei meet up – a Roma pare che l’abbiano chiuso – il confronto con gli attivisti e con i cittadini.

Il governo pentastellato della sindaca Raggi è un governo di élite, mutuato tal quale dai partiti tradizionali: le mosse concordate con i “vertici” e “con i capi” del Movimento, un ufficio comunicazione che macina propaganda trattando i cittadini come perenni elettori, un rapporto con i compagni di movimento più basato su fedeltà che su un confronto dialettico per migliorare la città.

E se la trovata – piuttosto “cheap” – per l’annuncio della ricandidatura è la metafora di una “tavola apparecchiata” che non si vuole lasciare “per far mangiare quelli di prima”, va detto, senza infierire troppo sulla tavola dei romani che ha sempre la stessa lisa tovaglia e gli stessi piatti sbeccati, che un Movimento che aveva annunciato che quella tavola sarebbe stata portata in piazza, che avrebbe aggiunto seggiole per accogliere persone, per mangiare insieme e magari ballarci anche sopra, si è trasformato nel solito consesso di pochi commensali che decidono.

Quello di cui ha bisogno Roma, e che vale per tutti i partiti e movimenti, è di spalancare le finestre, abbandonare le tavole apparecchiate, i salotti, i caminetti, i circoli esclusivi, e aprire tavoli di discussione, dibattiti accesi, proposte, autocritiche: insomma far vivere una città che avrebbe energie da vendere e che invece è sempre più ingessata nei riti del potere, in cui è scivolato, e si è adagiato, anche l’ultimo movimento arrivato, che voleva cambiare tutto e invece è cambiato lui stesso.

Spero che, come già per le primarie del centro sinistra, nasca anche nel M5S un fronte che chiede che le scelte per le elezioni a Roma del 2021 non vengano fatte da un vertice e – per i pentastellati – confermate da qualche migliaio di iscritti, ma che siano il frutto di un confronto aperto che vada oltre iscritti e attivisti, coinvolgendo anche i tanti elettori che nel 2016 hanno votato un MoVimento che credevano diverso dagli altri.