Cultura

Morto Paolo Fabbri, addio al semiologo amico di Umberto Eco: docente universitario amatissimo dagli studenti, ha svelato i segreti del linguaggio

Uomo di rara brillantezza, intellettuale finissimo e curioso, conversatore affabile e profondo, aveva elevato la semiotica, ovvero la disciplina che studia i segni e il modo in cui questi abbiano un senso, al rango di studio universitario superiore (“una disciplina metodologica a vocazione scientifica”) assieme al collega Umberto Eco

In principio fu il segno. Il semiologo Paolo Fabbri è morto nella sua Rimini. Aveva 81 anni. Uomo di rara brillantezza, intellettuale finissimo e curioso, conversatore affabile e profondo, aveva elevato la semiotica, ovvero la disciplina che studia i segni e il modo in cui questi abbiano un senso, al rango di studio universitario superiore (“una disciplina metodologica a vocazione scientifica”) assieme al collega Umberto Eco che, per l’amico con cui litigò spesso, inventò il personaggio di Paolo da Rimini ne Il nome della rosa. Fabbri era nato nel capoluogo romagnolo nel 1939. Nei primi anni sessanta fu allievo a Parigi di Algiridas Julien Greimas, poi insegnò a Firenze, Urbino e Palermo, ma soprattutto fu presidente del corso di laurea del Dams di Bologna tra il 1997 e il 2000, città in cui aveva insegnato al Dipartimento di Arti Visive della Facoltà di Lettere e Filosofia, i corsi di Semiotica e Semiotica dell’arte dal 1990 al 2003.

Fabbri, non proprio prolisso nelle pubblicazioni, aveva sempre spiegato che a suo avviso “il professore è orale”, più loquacità e incontro con gli studenti che trasmissione della conoscenza attraverso i testi. Tanto che il suo gradimento tra gli studenti era sempre stato alto e riconosciuto nonostante l’impervia materia, la semiotica, che ebbe la sua esplosione a livello accademico proprio dagli anni settanta in avanti, come del resto un relativo e cupio dissolvi negli anni duemila. Un gradino oltre la semiologia come critica della dimensione ideologica del discorso alla Roland Barthes (quella per la quale la borghesia aveva naturalizzato e fatto passare come necessaria la propria visione del mondo); qualche passo a fianco rispetto alla classificazione a priori dei segni e alla semiotica come campo di riflessione filosofica nell’impostazione di Umberto Eco (e alla base Charles Peirce), Fabbri allargò le frontiere epistemologiche della semiotica con il volume “La svolta semiotica” (1998, Laterza). Un ulteriore scarto in avanti per comprendere meglio la nozione di segno.

“Tutte le volte che si dice segno si pensa a una parola; e la semiotica, da questo punto di vista, ridiventa rapidamente una semiologia, nel senso più deteriore di una lessicologia”, scriveva Fabbri. “Ora, come nessun linguista accetterebbe l’idea che il linguaggio è fatto di parole, credo che nessun semiologo dovrebbe accettare l’idea che i sistemi di significazione sono fatti di segni. La semiotica (…) dovrebbe interessarsi al modo in cui attraverso una certa forma sonora (o altrimenti significante) noi produciamo sistemi e processi di significazione, ossia siamo in grado di significare mediante un certo tipo di organizzazione (fonetica, iconica, gestuale) (…) la lingua non è una somma di parole, e un sistema di significazione, a sua volta non è un insieme di segni”. In un saggio del 2018 il semiotico Stefano Traini spiegò: “Fabbri suggerisce di ipotizzare non una sola realtà, ma molte realtà con un diverso grado di esistenza. Ricorrendo alla teoria delle modalità di Greimas, Fabbri ricorda che vi è un livello di esistenza virtuale, un livello attuale, un livello realizzato: così per esempio il progetto di una pietanza avrebbe un’esistenza virtuale; la pietanza preparata e portata in tavola avrebbe un’esistenza attuale; la pietanza mangiata dai commensali avrebbe un’esistenza realizzata. L’idea sarebbe quella di considerare la realtà come qualcosa che si può smontare, decostruire, analizzare nei suoi diversi livelli di esistenza”.

Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Parigi, presidente della Fondazione Fellini a Rimini, Fabbri aveva vissuto da vicino anche i tumulti cultural-letterari del Gruppo ’63 e con Nanni Balestrini si era perfino candidato al consiglio comunale di Bologna nel 2009 nella lista Bologna Città Libera con l’ex consigliere di Rifondazione Comunista, Valerio Monteventi, candidato sindaco. Al di là delle singole preferenze (Balestrini 19, Fabbri 17), il semiologo riminese ebbe a dire della situazione politica italiana, intervistato dal sito pangea.news, dopo le elezioni del 2018: “un rizoma: constato una sola trasformazione imprevista. Una volta il proletario era strutturalmente internazionalista: aveva in comune il carattere di tutti gli sfruttati. E come diceva la parola, era ricco solo della sua prole. Oggi non fa quasi più figli e durante la crisi e davanti all’immigrazione di quelli venivano chiamati lumpen-proletari, il dis– o sotto– occupato vede nello Stato il solo possibile sostegno. Il lavoratore è diventato nazionalista: vota a destra e alla Lega di “prima gli italiani”. C’è chi non se n’è accorto”. E ancora con un’intonsa carica osservativa del segno linguistico contemporaneo, aveva dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera: “Siamo la cultura del superlativo, dell’esternazione e dell’iperbole enfatica che provoca emozione.

Ai tempi di Pasolini e Fellini parole come “ragazzì” e “paparazzi” sono entrate nel lessico francese, poi si è imposta la “paninoteca”, oggi dall’Italia penetrano in Francia i nostri superlativi in –issimo. E poi c’è anche un abuso di prefissi del tipo: ultra-, stra-, mega-, iper-, maxi-, macro-, meta– (…) È il trionfo della dimensione emotiva, come l’iperbole, l’apostrofe, l’esclamazione, l’appello, la parolaccia greve e l’insulto grave. Viviamo in un mondo emozionale, siamo portatori di intonazioni e prosodia più che di senso, siamo quasi tutti musicanti delle passioni, come i rapper. Tramontano invece le figure della riservatezza, dell’attenuazione, del sottinteso, dell’allusione”.