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Floyd, Trump isolato nel bunker insulta i manifestanti e twitta “law and order”. Ma non può chiedere ai neri di fermarsi

Non succedeva dal 2001 che un presidente finisse nel bunker della Casa Bianca per proteggersi da un eventuale attacco. Trump, incapace di gestire questa crisi sociale, reagisce attaccando. Ma all'uomo più potente d'America che difende i suprematisti bianchi e che è stato elogiato anche dai nazi Usa manca una cosa: la credibilità

La notte peggiore è stata venerdì. La folla si ammassava fuori dai cancelli della Casa Bianca. Molti urlavano insulti al presidente. Lanciavano pietre e bottiglie. Gli agenti del Secret Service hanno preso in custodia Donald Trump e la moglie Melania e li hanno condotti nel bunker sotto la Casa Bianca. Non accadeva dall’11 settembre 2001, quando il vice presidente Dick Cheney fu scortato nel bunker perché si temeva un nuovo attacco aereo, dopo quello a Due Torri e Pentagono.

Slogan, lancio di oggetti, fuochi appiccati un po’ ovunque (anche alla Saint John’s Episcopal Church, la “chiesa dei presidenti) sono continuati ancora sabato e domenica. Ma in quell’immagine di Trump barricato in un bunker sta molto del senso di quanto sta accadendo – e di un’intera presidenza. L’amministrazione fatica a gestire la nuova crisi. Confusione, disorientamento, rabbia si allargano dalle strade d’America alla Casa Bianca, e precipitano ulteriormente la crisi.

Dopo l’uccisione di George Floyd, Trump ha reagito ai disordini com’è sua abitudine. Attaccando. Del resto il presidente non è un pacificatore. Nei momenti di difficoltà attacca, e così ha fatto anche questa volta. Prima ha definito i manifestanti dei “thugs”, dei teppisti. Poi ha ripescato la frase di un vecchio capo della polizia di Miami, che nel 1967 invocò “il fuoco delle armi” contro gli afro-americani in rivolta. Infine ha tirato fuori “cani aggressivi e fucili” per bloccare chi assalta la Casa Bianca. Nelle ultime ore se l’è presa con “Biden l’addormentato” e con sindaci e governatori democratici, incapaci di bloccare le proteste. E ha twittato, tutto in maiuscolo: LAW AND ORDER.

“Non c’è alcun dubbio. Non sono tweet costruttivi”, ha commentato Tim Scott, l’unico senatore nero repubblicano. “La sua forza è incitare la base, non calmare le acque”, spiega Dan Eberhart, finanziatore e fedelissimo sostenitore di Trump. L’idea che l’aggressività della risposta del presidente finisca per eccitare gli animi, più che placare le proteste, si sta facendo del resto strada in alcuni dei suoi collaboratori. C’è chi pensa che Trump debba parlare alla Nazione. Riconoscere la realtà del razzismo americano e chiedere la fine dei disordini. La cosa non convince tutti. Le apparizioni televisive di Trump, durante l’emergenza del Covid-19, hanno provocato più polemiche che altro. Perché rischiare di nuovo?

Un elemento appare comunque chiaro. Come dice Eberhart, che lo conosce bene, Trump in questo momento parla ai suoi. Con le presidenziali in vista, il calcolo può essere simile a quello che fece Richard Nixon nel 1968: fare campagna in nome del ritorno a “legge e ordine”, promettendo di ristabilire la legalità e la proprietà minacciate dall’esplodere dei conflitti. Del resto, al momento di accettare la candidatura a presidente, alla Convention repubblicana del 2016, Trump disse: “Vediamo le nostre città avvolte da fumo e fiamme – con il presentimento che la Storia possa prendere una strada brutta e pericolosa”. Perché quindi non insistere ancora su quel messaggio, chiamando a raccolta l’elettorato più moderato, i bianchi spaventati dalla furia delle proteste afroamericane, magari gli anziani duramente segnati dall’epidemia di questi mesi?

Il ragionamento, che alcuni tra i repubblicani stanno elaborando, porta con sé un rischio. Nixon, nel 1968 era lo sfidante, chi cercava di conquistare la Casa Bianca. Così pure Trump nel 2016. Oggi Trump è il presidente, un presidente in carica da quattro anni. Come giustificare la richiesta di restaurare l’ordine perduto, quando quell’ordine avrebbe dovuto garantirlo proprio lui? Se questa opzione appare pericolosa, perché rischia di alienare l’elettorato che si cerca di conquistare, anche quella opposta sembra poco praticabile. Difficile infatti che Trump possa andare in TV e chiedere ai neri di fermarsi. Gli manca un requisito fondamentale. La credibilità. Questo è un presidente che sin dalla campagna elettorale del 2016 ha giocato con il sostegno della destra radicale. L’appoggio che gli diede Rocky Suhayda, chairman dell’American Nazi Party, quando disse che questo presidente “è per noi un’opportunità reale”, è lì a testimoniarlo. Ci furono poi i disordini di Charlottsville, che spinsero Trump a dire che anche tra i suprematisti bianchi “ci sono delle brave persone”. Sono episodi che le comunità nere d’America non hanno mai dimenticato. E tuttora il presidente ribadisce che le proteste che stanno incendiando gli Usa non sono provocate dalle infiltrazioni dei gruppi dei suprematisti bianchi, ma dell’organizzazione della sinistra radicale Antifa, già protagonista degli scontri a Seattle per il G7 del 1999 e del movimento ‘Occupy Wall Street’.

“Perché dobbiamo continuamente ripeterti che le vite dei neri contano?”, è la scritta comparsa sul Decatur Building, un edificio storico a un isolato dalla Casa Bianca. Possibile dunque che la protesta si spenga per la repressione della polizia. Probabile che all’interno dello stesso movimento che guida la contestazione si creino divisioni profonde, tra chi è pronto al confronto armato e chi invece rifiuta la violenza. Quasi impossibile che gli incidenti si plachino per un intervento del presidente. Del resto, quello che esplode ora è frutto di un movimento più lungo e complesso, che parte anni fa, con l’ascesa di una nuova coscienza politica tra i più giovani afro-americani, con “Black Lives Matter”, e che si è poi mano a mano nutrito di molte altre cose: le continue violenze da parte della polizia ai danni degli afroamericani per le strade d’America; la parzialità del sistema della giustizia (solo un paio di mesi fa i due assassini di un nero di 19 anni, Ahmaud Arbery, sono stati scagionati dai giudici); il persistente divario economico e sociale ai danni dei neri americani, che sono il gruppo più colpito dal coronavirus. Proprio a Minneapolis, la città dove è stato ucciso George Floyd, i neri sono stati il 34 per cento dei contagiati, ma rappresentano solo il 18 per cento della popolazione.

È tutto questo che esplode negli scontri che infiammano oggi le città d’America. Per un caso curioso della storia, questi mesi sono anche un gigantesco riepilogo del Novecento americano. Disordini razziali come nel 1968, dopo l’assassinio di Martin Luther King. La pandemia devastante, che ha ucciso oltre 100mila persone e che ricorda quella del 1918. Un crollo economico che riporta la memoria alla Grande Depressione degli anni Trenta e alla Recessione del 2008. Tutto confluisce, nel giro di poche settimane, nella fase finale del mandato di Donald Trump: il più divisivo, contestato, esplosivo, oggi isolato e disorientato, presidente della storia degli Stati Uniti.