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La globalizzazione finirà solo col blocco dei capitali: ora a rimetterci sono sempre i lavoratori

di Luigi Manfra*

Con globalizzazione si definisce quel fenomeno che, negli ultimi due decenni, ha portato alla intensificazione degli scambi e degli investimenti internazionali su scala mondiale rendendo le economie nazionali sempre più interdipendenti, anche grazie alla rivoluzione digitale che ha reso le relazioni economiche, soprattutto quelle finanziarie, particolarmente veloci.

La diffusione delle tecnologie informatiche ha favorito i processi di delocalizzazione delle imprese e lo sviluppo di reti di produzione e di scambio sempre meno condizionate dalle distanze geografiche, alimentando la crescita dei gruppi multinazionali e i fenomeni di concentrazione su scala mondiale.

Tra gli aspetti positivi della globalizzazione vanno annoverati la crescita esponenziale del volume di informazioni disponibili, lo sviluppo economico di nazioni marginali, la riduzione dei costi per il consumatore finale grazie all’incremento della concorrenza su scala planetaria. Ma, a fianco di questi aspetti positivi, si sono acuiti fenomeni già presenti nel passato come l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro, il degrado ambientale, l’aumento delle disparità sociali.

Il termine globalizzazione descrive l’interconnessione dei sistemi economici nazionali attraverso catene globali del valore, o Global Value Chains (Gvc), dove la produzione di beni e servizi a livello mondiale è segmentata in diverse fasi, localizzate in aree diverse, spesso molto distanti l’una dall’altra. L’aspetto più rilevante è l’impatto che i nuovi modelli produttivi Gvc hanno sulla disuguaglianza economica in termini di distribuzione geografica delle attività produttive.

Ricerca e sviluppo, design e marketing, appannaggio dei paesi ricchi, si appropriano della parte predominante del valore aggiunto, mentre la produzione è sempre più delocalizzata nel sud del mondo dove i livelli salariali sono molto bassi. Tra i paesi maggiormente colpiti dal Covid-19 vi sono gran parte delle economie, Cina in testa, che svolgono un ruolo di enorme rilevanza lungo le catene globali del valore.

In altri termini, l’interconnessione delle strutture produttive dei diversi paesi a livello internazionale fa sì che queste catene rappresentino i canali privilegiati lungo cui si propaga il virus della recessione in tutto il mondo. Ma la crisi economica, oltre che sulla produzione, avrà effetti negativi anche sulla domanda.

Le misure intraprese dalla maggior parte dei paesi allo scopo di contenere il virus, dalla drastica riduzione della mobilità delle persone alla chiusura degli esercizi commerciali, di teatri, biblioteche e musei, hanno comportato una riduzione dei consumi da parte delle famiglie. Particolarmente colpito è stato il settore dei servizi, dai trasporti, al turismo e alla ristorazione.

La chiusura di molte attività produttive e commerciali si è tradotta in un aumento del tasso di disoccupazione e, quindi, in una riduzione del reddito disponibile di molti lavoratori e lavoratrici soprattutto nel settore informale dell’economia. Infine, è atteso un aumento della propensione al risparmio da parte delle famiglie a fini precauzionali, che ridurrà i consumi fino a quando il timore del contagio non sarà definitivamente svanito.

Sopravvivrà la globalizzazione al coronavirus, oppure il processo si arresterà e riprenderà piede il nazionalismo economico, di cui si sono visti alcuni esempi in questi primi tempi della pandemia? Malgrado il processo di globalizzazione abbia perso velocità negli ultimi anni soprattutto grazie ai sovranismi in crescita in molti paesi, è difficile immaginare un ritorno al passato, anche se il presidente Trump, in una recente intervista a Fox Business, ha dichiarato che questa pandemia dimostra che l’era della globalizzazione è finita.

Ma per l’agricoltura degli Stati Uniti il mercato cinese è vitale, i paesi in via di sviluppo sono sempre più dipendenti dall’esportazione di beni intermedi e di altre produzioni di massa, ma soprattutto la libertà di movimento dei capitali non viene minimamente intaccata dalle misure di contenimento del contagio. La globalizzazione sarà in pericolo solo quando verranno introdotte forti misure di limitazione al movimento internazionale dei capitali.

Del resto l’alternativa alla globalizzazione è il ritorno ad un nazionalismo economico invocato dai sovranisti di tanti paesi che, se attuato, comporterebbe il crollo dell’economia mondiale e l’ulteriore aumento delle tensioni internazionali.

Nel futuro più incerto che mai, l’unica novità emersa con la recessione è il rafforzamento del ruolo dello Stato nell’economia. Gli ingenti interventi di sostegno, sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta, in tutti i principali paesi del mondo ne sono la prima eloquente testimonianza. La mano pubblica, che fino a ieri appariva sempre più marginale in un’economia guidata dalle leggi del libero mercato, riacquista con la crisi economica una centralità che sembrava svanita per sempre.

* Responsabile scientifico del Centro studi Unimed, già docente di Politica economica presso l’Università Sapienza di Roma