Società

Coronavirus, ciò che (non) vedo mi fa impazzire di tristezza. Meglio creare un tutorial quarantena

Guardo fuori dalla finestra, il mio appartamento si affaccia su una piazza con giardinetti, ora vi dico che cosa vedo: un ragazzo in bicicletta con la mascherina e un quadro sotto il braccio, tre persone in giro con i rispettivi cani, due bambini sull’altalena e una mamma, vedo delle macchine, non molte, e l’autobus fantasma alla fermata.

Il cielo non riesce a essere azzurro, ma c’è un presentimento celeste che si impiglia tra i rami degli alberi. Ora vi dico quello che non riesco a vedere ma che immagino. Immagino un vecchio che non riesce più a respirare da solo, lo immagino intubato, lontano da tutti gli affetti più cari, mi sembra di vedere le sue mani, nodose e magre, abbandonate sul letto, le palpebre sono chiuse per proteggere gli occhi dalla vista di quell’inferno così bianco, così puro, così gelido e sterilizzato. Mi sembra di sentire i suoi ricordi catapultarsi in un sussurro nella memoria: un vela bianca d’estate, una donna che gli sorride, un bambino che si rotola sull’erba e ride.

Siamo qui con te, tutti. Non ti lasciamo solo, ogni ricordo sembra dire questo: non ti lasciamo solo. A volte è un sussurro, altre volte un grido. Tu hai sete e ognuno di noi ti porta una goccia d’acqua dal tuo passato, non morirai di sete. La memoria è la madre della mente, l’ultima madre. E il vecchio intubato trova il coraggio di aprire gli occhi, un raggio di
sole scheggia il ventilatore, fotosintesi dell’abbandono, fiorisce un addio lieve come un sospiro, in fondo anche l’addio è solo un saluto, un arrivederci colto dal disincanto.

Ecco quello che vedo e quello che immagino. Allora per non impazzire di tristezza faccio lo scemo del villaggio globale e m’invento un tutorial quarantena.