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Coronavirus, la carenza di medici non c’entra col numero chiuso nelle università. Anzi - 2/4

La storia del test

L’accesso accademico programmato a livello nazionale viene istituito a tutti gli effetti con l’entrata in vigore della Legge 264/1999, il 22 agosto dello stesso anno. All’articolo 1 è stabilita la disciplina dell’accesso ai corsi di laurea di medicina e chirurgia, medicina veterinaria, odontoiatria e protesi dentaria, architettura, scienze della formazione primaria, nonché a quelli che allora erano i “corsi di diploma universitario […] concernenti la formazione del personale sanitario infermieristico, tecnico e della riabilitazione”, ovvero le attuali professioni sanitarie, dopo la riorganizzazione accademica ex D.M. 270/2004.

Sicuramente, è difficile ricavare ragioni e intenzioni del provvedimento se non si conoscono almeno questi due antefatti: in primis, che la Legge “Provvedimenti urgenti per l’Università” 910/1969 aveva liberalizzato l’accesso alle facoltà universitarie a chiunque possedesse un titolo di maturità quinquennale; poi, che nel giugno 1999 l’Italia, insieme a Francia, Germania e Regno Unito, si era impegnata alla costruzione di uno Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore, il cosiddetto “Processo di Bologna”.

Alla luce di ciò, è facile vedere l’attuazione del numero chiuso come la risposta italiana a uno degli impegni internazionali sottoscritti: il test voleva essere garanzia della massima occupabilità dei laureati, dopo che l’apertura del 1969 aveva formato personale medico in sovrannumero rispetto alle esigenze di allora del Paese.