Cultura

Imperdonabili – Ilaria Palomba, un talento fatale che scruta la crudeltà

Se c’è un ipotetico modello a cui ispirarmi pensando al Movimento letterario de Gli Imperdonabili (fondato con l’editore Giulio Milani nel novembre scorso) mi viene in mente lei, lei che mi sembra ne sia la perfetta traduzione. Imperdonabile, Ilaria Palomba, scrittrice, poetessa, laurea in Filosofia, origini pugliesi, un gran talento, esoso e fragile, profondissimo, similmente alla sua scrittura che infila il destino di tutti.

Lei, Ilaria, una sensualità prominente ma ingannevole presumo, nasconde maldestramente l’innocenza e il disagio, diventa un tornio, un parametro da sollevare con indolenza. Ilaria Palomba scrive, incontrando le domande del mondo, dice: “domande enormi”. Le domande del personaggio femminile del suo recente romanzo, Brama (Giulio Perrone editore, 2020, pp. 239). Le domande di Bianca, innamorata fino alla malattia dell’uomo che non avrà. L’amore di fatto cos’è se non un brutto incidente mondano, destinato a incidere deludenti epigrafi, la concessione stiracchiata e scabra di un lascito disatteso.

L’amore e l’ossessione, in Brama, sembrano solo ombre virtuose, virtuose e eccellenti, gli assedi nutriti da Ilaria come pargoli, Ilaria, lei che li incarna, come un secondo vestito, o come il pallore della pelle scoperta, pronta a bruciarsi, nel nome dello sguardo di tutti. Ilaria scrive a proposito della sua poetica: “Cerco la prospettiva della mostruosità, non che sia direttamente io ma mi piace scrutare ciò che banalmente si definisce male. Perché si diventa crudeli? Cosa ci fa andare nella direzione del male: un destino ineluttabile o la relazione con gli altri? I miei personaggi giocano con gli impulsi primordiali, si fanno amare per l’eccesso, si fanno odiare. Una coppia è una guerra? Un gioco? Chi gioca con chi? E se uccido l’altro ho vinto oppure ho perso? Forse uccidere è perdere, arrendersi, dichiararsi sconfitti al punto da dover eliminare fisicamente l’oggetto del desiderio per venire fuori da un’ossessione. Chi muore avrebbe dunque vinto? Ovviamente no. L’erotismo, come voleva Bataille, è l’apprezzamento della vita fin dentro la morte”.

Ecco, Ilaria è la scrittrice nella quale riconosco l’imprendibilità del talento, il talento che diventa giogo, il coltello affilato che si lascia chiamare in mille modi, finanche fatalità. Di seguito, un brano tratto da Brama, lo leggo e scandisco locuzioni o anatemi, invocazioni che rivendicano bellicose le assenze e ribadiscono se stesse, avvitandosi con crudeltà nello sgomento.

Quando hai scampato la morte comincia il peggio,
ci sono tre risposte che non devi mai dare se ti chiedono
perché hai tentato il suicidio: se dici per estinguere
il dolore che mi urla dentro, ti danno un antidepressivo,
se dici per farla pagare a tutti quelli che
non hanno capito chi sono, ti danno uno stabilizzatore
del tono dell’umore, se dici perché mi chiama dal
fondo dell’abisso e ha la voce di una sirena e la linea
di confine si è squarciata e volevo vedere cosa c’è oltre
e sto così bene nel limbo, ti danno un antipsicotico;
quindi, impara, non vuoi estinguere nessun dolore,
non vuoi farla pagare a nessuno e nessuno ti chiama
dall’abisso. Magari puoi dire che ti è morto il cane e,
certo, ti senti molto solo; con un po’ di Xanax e una
terapia di gruppo te la cavi, ma se esponi la verità, ti
fottono di brutto e poi arriva la contenzione.
Si chiama camicia di forza farmacologica, ti svegli e
non puoi coordinare i movimenti, ti alzi e ricadi su te
stesso; non puoi agire, non puoi respirare, non puoi
neanche sognare, puoi solo divorare. Cervello rettile. In
principio Dio non sapeva disegnare, così tracciò una
linea e disse: Tu divorerai ogni cosa. Lobotomizzata dai
farmaci regredisco allo stato primordiale, sono una serpe
e divoro ogni cosa. Cerco rasoi per tagliare la carne.
Farla fuori. Farla a fette. Un tempo davanti ai morti mi
domandavo a cosa servisse nascere, ora mi pongo lo
stesso interrogativo di fronte a ogni vivo.
Avrei voluto guardare gli altri, osservarli, carpirne
l’odore ma in quello stato non potevo fare altro che
lottare contro la camicia di forza. Perché sei qui?
dicevano. Perché non fanno che usarmi e abbandonarmi,
avrei dovuto dire. No, perché mi sono abbandonata
da sola, non so neanch’io quando (…).

Non c’è da aggiungere altro, credo.