Scuola

A scuola vince il disinteresse, anche nei sindacati. E i docenti ormai sono soli

Dunque i sindacati della scuola addirittura anticipano la data dello sciopero generale della scuola, dal 13 al 6 marzo, sempre di venerdì.

Fra le ragioni di questo irrigidimento, stando al comunicato che annuncia l’agitazione, quella prevalente è la stabilizzazione dei precari attraverso l’indizione di concorsi semplificati per chi ha più di tre anni di servizio nella scuola pubblica e per i direttori amministrativi in servizio senza il previsto titolo di studio. I sindacati sostengono che la ministra abbia disatteso gli impegni dei suoi predecessori, per i quali i quesiti della prova a quiz del concorso straordinario avrebbero dovuto essere scelti in una batteria di 4-5mila quiz da rilasciare qualche giorno prima perché i concorrenti potessero esercitarsi, come per la patente di guida o come le prove preselettive dei concorsi da dirigente scolastico dello stesso Ministero. Nel caso in questione, tuttavia, si tratterebbe dell’unica prova scritta, non di una preselezione che apre ad altre verifiche sulla capacità del candidato.

Lo sciopero anticipa il weekend di chi aderisce, ma certifica la scarsa efficacia dell’azione dei sindacati della scuola. Più preoccupati a far fruttare i centri servizi, i Caf e i corsi di formazione che non a costruire con il personale della scuola identità professionale, competenza, prestigio sociale. Non è sempre stato così: la nascita e lo sviluppo della scuola di massa – a cominciare dal Tempo Pieno nella scuola dell’obbligo – si sono intrecciati a lungo con sindacati capaci di coniugare la funzione di tutela professionale con la visione di un modello scolastico (e di un profilo di insegnante) capace di fare squadra per produrre sperimentazione, innovazione, integrazione.

Poi tutto è finito, annacquato nella tutela del particolare, nella difesa dell’indifendibile, nel “dentro tutti” con l’applicazione al ribasso della filosofia dei “diritti acquisiti”, a colpi di sanatorie e meccanismi di reclutamento sempre più astrusi e perciò sempre più ingiusti. Nel mentre la solitudine si impadroniva della scuola, a cominciare dagli insegnanti, e non l’ha più lasciata.

Nuovi docenti lasciati soli dai colleghi: si è spezzata quasi dappertutto quella circolarità dell’informazione e della formazione sul campo, che ha messo in passato molti giovani insegnanti nella condizione di affrontare il mestiere con serenità. Giovani, meno giovani e vecchi accomunati dalla consapevolezza di un compito arduo che è una scommessa continua capace, quasi da sola, di significare il mestiere, di rendere le giornate un’avventura entusiasmante o un incubo. L’individualismo, l’abitudine al lamento, il disinteresse hanno vinto quasi dappertutto, aiutati dalla rotazione continua di sede dei docenti precari, impossibilitati a mettere radici, a diventare soggetti attivi nella costruzione di sane relazioni, di quelle che facilitano l’apprendimento e la confidenza dei ragazzi con l’istituzione.

Docenti e non lasciati soli dai sindacati. Illusi da battaglie ridicole – come pensare che un insegnante, che valuta ogni giorno gli allievi, perfino il loro comportamento, non possa in alcun modo essere valutato nelle sue prestazioni? -, coltivati nel tabù dell’orario “corto” e della “libertà di insegnamento” trasformata in scampoli di finta libertà da gestire individualmente. Con la chance del secondo lavoro o delle lezioni private per arrotondare lo stipendio da part-time a cui far corrispondere prestazione conseguente.

Tutti lasciati soli dalle istituzioni: scuole fatiscenti, con arredi e allestimenti da terzo mondo, in costante debito di manutenzioni e funzionamento, specialmente delle tecnologie, spesso per mancanza di fondi, ma ancora più spesso di ambizione e di figure capaci di prendere in mano le questioni complesse e “straordinarie” per farne orgoglio professionale e spunto utile a disegnare la scuola del futuro.

Lasciati soli da dirigenti sommersi di leggi, circolari, adempimenti e incombenze, sovente privi di collaboratori capaci di coordinare il lavoro, interpretare i bisogni delle famiglie e degli allievi, controllare il funzionamento corrente e cogliere i segnali e le richieste di quel mondo così ricco e complicato. Tutto il fervore tecnocratico degli anni scorsi ha prodotto dirigenti disorientati, a volte più dediti alla ricerca del quieto vivere che a provare fare delle loro scuole luoghi di inclusione, di apprendimento, di recupero, di sviluppo sociale.

Eppure le risorse non mancherebbero. Di insegnanti motivati ce ne sono tantissimi, di insegnanti preparati anche, forse assai più di un tempo. Mancano un po’ gli insegnanti che assumono il cooperare come valore fondante della loro prestazione professionale; gente disposta a mettere in comune idee, speranze, competenze, materiali di lavoro, investimenti umani e culturali. In realtà non è che manchino: se ne stanno in disparte, timorosi di non essere in sintonia con il sentire dei tempi, qualche volta compatiti da colleghi più disinvolti che, cogliendo gli innumerevoli segnali della politica e della società in-civile, fanno meno che possono e danno la colpa agli allievi.

Nella scuola di gente in gamba e motivata ce n’è parecchia; basterebbe un po’ di organizzazione, conforto, volontà politica e voglia di fare. Me ne sono accorto esaminando un bel numero di docenti negli ultimi due concorsi della scuola. Aspettano un segnale dalla politica, dal ministero, perfino dai sindacati: bisogna tornare a sperimentare metodi organizzazione e contenuti, a costruire la scuola di domani, quella che serve alla nazione per tornare a progredire. Facendola finita con la solitudine in cui il paese è sprofondato, figlia dell’individualismo e della sottocultura, quella che produce tanto danno, anche alla scuola.