Diritti

Fine vita, ultima udienza per Cappato e Welby sul caso Trentini. E la sentenza avrà un valore ulteriore

Il 5 febbraio si terrà a Massa l’ultima udienza del processo che vede imputati Marco Cappato e Mina Welby per l’aiuto al suicidio prestato a Davide Trentini. L’esito del processo non è scontato, nonostante la sentenza del 24 settembre 2019 della Corte Costituzionale abbia fatto venir meno l’assimilazione tra l’aiuto e l’istigazione al suicidio prevista dal codice Rocco del 1942 che, coerentemente con l’ideologia fascista che lo ispirava, non ammetteva in alcun modo la possibilità per la persona di metter fine volontariamente e con l’aiuto di altri alla propria esistenza.

Ma la sentenza della Corte ha limitato i casi in cui l’aiuto al suicidio non costituisce più reato all’ipotesi in cui “il soggetto sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e sia affetto da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili ma sia al contempo pienamente capace di intendere e volere”. Così la Corte.

L’estensione ad altre ipotesi spetterebbe al legislatore, che però ha oscillato finora tra posizioni di netta chiusura e timide inerzie dettate dalla paura di entrare in rotta di collisione con posizioni confessionali. È chiaro che il caso di Davide Trentini sfugge alla griglia disegnata dalla Corte perché non sussisteva in quel caso la dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale: Trentini era affetto da una sclerosi multipla che trasformava progressivamente la sua vita in un calvario.

Decise perciò di metter fine a quelle sofferenze optando per il trasferimento in Svizzera con l’aiuto di Mina Welby che partì con lui e lo aiutò nel disbrigo delle pratiche, e di Marco Cappato che diede il via alla raccolta dei fondi necessari al pagamento della clinica.

Per questo motivo la sentenza di Massa avrà un valore ulteriore: si tratterà di capire se prevarrà un criterio “oggettivo” di dignità della vita o invece quello “soggettivo” che demanda qualunque decisione alla valutazione del diretto interessato. È evidente infatti che la sentenza della Consulta, pur nella assoluta chiarezza nel separare aiuto e istigazione, continua a far riferimento a criteri oggettivi di dignità/indegnità della vita nel momento in cui indica tra le condizioni indispensabili che il soggetto dipenda da trattamenti di sostegno vitale.

Torna perciò in gioco la questione primaria: a chi appartiene la vita e chi, dunque, è titolato a decidere se sia degna o no di essere vissuta? Se la sentenza di Massa (o, ipotesi improbabile, un intervento tardivo del legislatore) dovesse dichiarare la non sussistenza del reato anche nel caso in esame, si andrebbe verso una definitiva archiviazione della visione secondo la quale la vita è un “bene assolutamente indisponibile”, riconsegnandola invece alla disponibilità del singolo.

In caso contrario – e pur con tutti i progressi e i temperamenti del principio intervenuti negli ultimi anni – si riaffermerà invece l’idea che la decisione su ciò che è degno e ciò che è indegno di essere vissuto debba essere demandata a un ente superiore e terzo – che sia divino o umano poco cambia – che ci riporta a un criterio etico-morale che dovrebbe essere estraneo a uno stato laico.

I passi fatti negli ultimi anni, dalla legge sul biotestamento alle sentenza della Corte del 2018 e del 2019 fino al varo ancorché in estremo ritardo del decreto che istituisce la banca dati delle disposizioni anticipate di trattamento che dà finalmente piena attuazione alla legge 219 del 2017, sono innegabili e sarebbero stati impensabili fino a pochi anni fa.

Ma pur nell’allargamento delle maglie e nel riconoscimento di un ruolo fondamentale e inedito della persona nelle decisioni sulla vita e sulla sua fase finale, manca ancora un tassello: quello in grado di cambiare veramente l’angolo visuale eliminando qualunque criterio di tipo etico, morale e religioso nella definizione di “dignità della vita” e sostituendolo con la piena autodeterminazione della persona pur con l’aiuto e il sostegno che la comunità deve assicurare.

Una sentenza di assoluzione nel processo in corso a Massa avrebbe un’enorme valenza in questo senso, così come l’avrebbe la calendarizzazione della proposta di legge di iniziativa popolare sull’eutanasia legale che giace depositata alla Camera dal 2013: in un paese che si nutre di sondaggi su qualunque tema, si ignora deliberatamente che la maggioranza degli italiani, sondata in numerose occasioni, si esprime con regolarità a favore di una legge.