Cinema

Vogliamo pacchi e pacchettini e li vogliamo subito. E Ken Loach lo sa bene

Con il periodo pre-natalizio esplode il traffico di merci, soprattutto nelle grandi città. Il mercato cosiddetto del delivery, ossia delle consegne a domicilio, è uno dei più grandi fenomeni degli ultimi anni, con ricadute sociali e ambientali di prim’ordine. Nella sola Parigi per il black Friday si è assistito a un ingorgo da un milione di consegne in 24 ore, e così per tenere il passo le Poste e i corrieri promuovono persino le prime “piattaforme collaborative per la consegna di pacchi tra privati”, cioè i Blablacar del pacchetto.

Sull’argomento fa luce l’ultimo film di Ken Loach, Sorry We Missed You (ovvero, “Scusa, ci sei mancato”), che il 2 gennaio uscirà finalmente anche in Italia. Il titolo è ripreso dalla scritta prestampata sul bigliettino standard di un corriere, che l’autotrasportatore deve lasciare sul campanello in caso di non avvenuta consegna. Come gli spettatori avranno modo di constatare alla fine del film, il missed del titolo vale, a doppio senso, anche per il protagonista Ricky, un uomo che finisce letteralmente in pezzi, stritolato nel labirinto dello sfruttamento di oggi. Così il leone rosso del cinema britannico apre uno squarcio sulla logistica, settore chiave di questo nostro mondo turbo-liberista mondialista, basato sul nostro consumismo spinto fino all’inimmaginabile.

Loach (eccezionale ospite, il 17.12, dell’open day della Cineteca di Bologna) non rinuncia certo a 83 anni alla sua classica drammaturgia dichiaratamente partigiana: fa leva sulla figura del ‘cattivo’ del film, Maloney, piccolo ras locale di un’organizzazione multinazionale analoga ai vari Dhl, Tnt, Gls, per chiarire bene che quel che succede a tutti noi, oggi, vittime e complici di un sistema di assolutismo delle merci: essendo poi tutti perlopiù interessati al puntuale delivery, al recapito tempestivo, ce ne infischiamo bellamente di tutta la catena d’infernale sfruttamento su cui si regge la nostra stessa consegna.

E basta la scritta che scorre nei titoli di coda, “Grazie a tutti quei trasportatori che ci hanno fornito informazioni sul loro lavoro ma non hanno voluto che i loro nomi comparissero”, per rendere l’idea di quanto abbiano lavorato sulla realtà nuda e cruda, al solito, Ken Loach e il suo sceneggiatore Paul Laverty.

Del resto, lo straordinario livello di post-taylorismo che sta incatenando il mondo del lavoro, e questo della logistica in primis, è reso ancor più insidioso dallo sfacciato mascheramento dietro l’apparenza di un sistema pulito e legale di franchising, di piccole imprese, di cooperative, di appalti e di subappalti. Una micidiale costruzione burocratica che risulta alla fine, in tutto e per tutto, lo specchio del sistema malavitoso e caporalesco del lavoro nero para-schiavistico, che impera invece apertamente nell’agricoltura e nell’edilizia, anche in Italia, nel tessile e in altre produzioni.

Ma il film-denuncia di Loach ci consente anche di riflettere sul risvolto ecologico, nel senso più ampio, di questo modello di globalizzazione. Lo spreco cinico delle vite umane è solo la faccia più mostruosa dei guasti che questa incessante circolazione delle merci arreca all’intero eco-sistema, per la quantità d’inquinamento e di scarti che si producono, per il consumo di suolo dovuto alla costruzione di magazzini, di porti e interporti sempre più giganteschi.