Lavoro & Precari

Insoddisfazione, bassi guadagni e scarsa tutela: i rischi di avere un’app come capo

di Adriano Cirillo* e Carolina Valicenti**

Giorgio, 25 anni, parla tre lingue, ha lavorato come dipendente back office e nella cucina di una paninoteca. Ora fa il check-inner e il suo capo è una piattaforma digitale che, tramite un’app, lo spedisce in giro ad accogliere gli ospiti per qualche notte negli appartamenti di Milano. Giorgio è libero di spuntare sulla app i suoi giorni disponibili. Per questo è considerato un lavoratore autonomo e viene pagato 8€ lordi a check-in, cioè a cottimo.

La mattina arriva in ufficio, preleva le chiavi degli appartamenti che la app gli assegna e attende l’aggiudicazione dei late (i check-in notturni pagati il triplo). Comincia quindi il giro degli appartamenti, nei quali controlla che i cleaners abbiano fatto le pulizie, vi siano tutti gli accessori e gli elettrodomestici previsti, sia stata cambiata la biancheria e preparata la colazione. Se manca qualcosa, lo segnala, ma se è troppo tardi deve occuparsene lui (è capitato di rifare i letti o sturare lavandini).

Gli ospiti non sono mai puntuali, perciò il servizio assistenza lo “rimbalza” da un appartamento all’altro: “una volta ho fatto avanti e indietro da un appartamento 4 volte”. Tutte le comunicazioni si svolgono via app che incrocia i dati degli ospiti, del servizio di locazione, dei check-inners e dei cleaners. Una volta arrivati gli ospiti, Giorgio li registra sulla app, consegna loro le chiavi, dà alcune indicazioni sull’appartamento e sul quartiere. Spesso incrocia i cleaners in motorino carichi di lenzuola, i riders che consegnano cibo o camicie stirate ai guests. Anche il loro capo è una piattaforma digitale.

Giulia è una shopper. Arrivato un ordine si reca in negozio, segnala sulla app di essere arrivata al punto di ritiro e comincia a fare la spesa. La app calcola il tempo impiegato e riconosce 0,05€ per ogni minuto di attesa dopo i primi 5, che con la tariffa base di 2€ e quella chilometrica di 0,61 € determina il guadagno dello shopper. Il lavoro è a cottimo. Quando è in bicicletta la merce trasportata nel bauletto a cubo non può superare i 9 kg. Questo limite spesso non viene rispettato e sta a Giulia decidere se rischiare la “pelle” trasportando merci pesanti, come le casse di acqua, magari sotto la pioggia (ricevendo il bonus di circa 1€), oppure rischiare un feedback negativo dal cliente insoddisfatto e quindi una minore assegnazione di consegne.

Giorgio e Giulia raccontano di scampate aggressioni da parte di clienti e terzi, spesso consapevoli che i gig workers hanno con sé denaro e oggetti di valore. Per Giulia, poi, i pericoli aumentano. Le molestie si verificano quotidianamente, tanto che è costretta a rinunciare alle consegne in zone isolate. Entrambi sono insoddisfatti del loro lavoro, che è anche il loro unico lavoro: “non è un buon mestiere”, nonostante le promesse di flessibilità, autonomia e alti guadagni.

Le piattaforme controllano i lavoratori in modo oppressivo, tenendoli sotto scacco tra feedback, assegnazioni e parametri di efficienza, costringendoli a un lavoro di corsa. Anche loro hanno un boss, che però può disattivarli a piacimento. Dice Giulia, “si tratta solo un altro pallino che sparisce da una mappa”.

Queste sono alcune storie della gig economy. Le piattaforme digitali sono potenzialmente in grado di organizzare le più svariate tipologie di lavoro, attraverso uno schema che si adatta a deliveries, check-inners e cleaners e, in futuro, a medici o rappresentanti commerciali. Per questo è necessario inquadrare il fenomeno in uno spettro più ampio, che superi l’accordo integrativo al Ccnl (Contratto collettivo nazionale di lavoro) del settore della logistica del 18.7.2018. La soluzione non è semplice, nonostante la nostra Costituzione “tutel(i) il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”.

Lo testimonia una scarsa e contraddittoria giurisprudenza. Alcuni passi avanti sono stati fatti nella contrattazione collettiva, dapprima con la Carta di Bologna del 31 maggio 2018 e poi più concretamente con l’accordo quadro di Firenze dell’8 maggio 2019 con il quale l’azienda firmataria si impegna ad applicare il Ccnl della logistica e riconoscere la subordinazione. Queste prime forme di regolamentazione del fenomeno, concentrandosi su “tempo” e “luogo” di lavoro nella gig economy, forniscono spunti utili per interpretare e disciplinare le esperienze che oggi vengono collocate tra autonomia e subordinazione.

La soluzione può arrivare dalle organizzazioni sindacali, a condizione che siano in grado di far emergere le reali necessità dei gig workers e rappresentarli al tavolo delle trattative. Potranno allora emergere soluzioni win-win, da generalizzare poi in interventi legislativi. Passaggio obbligato: tutelare la libertà di organizzazione dei gig workers, anche da condotte antisindacali, e garantire loro i diritti di sciopero e assemblea e per tal via far emergere un interesse collettivo autentico aggiornato agli strumenti di comunicazione moderni.

*Avvocato giuslavorista, sono nato il 15 agosto 1970, laureato a Milano e avvocato dal 2003. Il diritto del lavoro è la materia per la quale ho, da sempre, un particolare interesse, perché convinto della rilevanza sociale e personale che il lavoro ha nella vita delle persone. Ritengo che le persone debbano essere sempre al centro di ogni norma e interpretazione giuridica. Esercito la professione in modo indipendente. Nel 2013 ho conseguito un dottorato di ricerca a Cà Foscari, Venezia, in diritto del lavoro, nonché cultore della materia presso l’Università Statale di Milano.

**Praticante avvocato, classe 1994, laureata presso l’Università degli Studi di Milano con votazione 110 e lode con tesi in diritto del lavoro dal titolo “L’organizzazione sindacale nel lavoro tramite piattaforme digitali”. Da sempre appassionata di lavoro e storia dei movimenti operai, ritengo che i diritti del lavoro debbano riacquistare centralità nel dibattito pubblico e scientifico.