Giustizia & Impunità

Moby Prince come Ustica, 82 familiari fanno causa allo Stato: “Non garantì sicurezza e soccorsi, le 140 vittime morirono dopo ore”

I parenti di passeggeri e membri dell'equipaggio che persero la vita nella strage del 1991 a Livorno citano in giudizio i ministeri di Difesa e Trasporti partendo dai risultati di una commissione d'inchiesta: per questo non c'è rischio prescrizione. "La morte? Non fu il 10, ma l'11: per molto tempo l'autorità pubblica non fece niente per salvarli". Prima udienza il 26 marzo, quasi 29 anni dopo.

Una causa civile contro lo Stato italiano, con la citazione in giudizio dei ministeri della Difesa e delle Infrastrutture e dei Trasporti. A firmarla sono 82 familiari delle vittime della strage del Moby Prince, il traghetto che si incendiò dopo l’impatto con la petroliera Agip Abruzzo e a bordo del quale morirono 140 tra passeggeri e membri dell’equipaggio. Secondo l’atto di citazione lo Stato italiano non garantì “la sicurezza della navigazione marittima nella rada di Livorno” la sera del disastro navale, il 10 aprile 1991 e soprattutto non prestò “i soccorsi dovuti”, contribuendo così in modo decisivo alla morte di chi si trovava sulla nave passeggeri. E i ministeri devono pagare perché responsabili della Capitaneria di porto di Livorno. La causa civile è firmata dagli studi legali Taddia&Bernardo di Livorno, Milazzo&Partner di Milano e dall’avvocata Sabrina Peron sempre di Milano. Un testo al quale ha contribuito anche il professor Paolo Carrozza, ordinario di diritto costituzionale alla Scuola Superiore Sant’Anna, scomparso a settembre a 69 anni.

La causa civile poggia sui risultati della commissione parlamentare d’inchiesta che ha ribaltato la ricostruzione giudiziaria di oltre vent’anni di indagini, processi senza condanne e archiviazioni. Secondo l’organismo del Senato, che ha concluso i suoi lavori all’inizio del 2018, l’autorità pubblica nella notte della tragedia si rivelò “impreparata e inadeguata”.

Sarà il tribunale civile di Firenze a determinare se il ministero della Difesa e il ministero dei Trasporti siano responsabili di aver violato, tramite l’operato della Capitaneria, il cosiddetto “contatto sociale” secondo il quale lo Stato doveva assicurare un “generale obbligo di protezione” a chi era imbarcato sul Moby. Il primo appuntamento in aula è già fissato per il 26 marzo 2020. Quasi 29 anni dopo l’incidente.

Se il tribunale riconoscerà il diritto dei familiari delle vittime del Moby Prince a farsi risarcire dallo Stato, sarà necessario un altro processo civile per determinare l’entità dei danni subiti dalla perdita dei loro cari e da anni di lotta per verità e giustizia.

Per i familiari delle vittime è comunque un momento storico. “Siamo al primo round legale dopo aver ottenuto la verità dalla commissione – spiega a ilfattoquotidiano.it Luchino Chessa, anche lui figlio di Ugo e presidente dell’Associazione 10 aprile – Con questa causa civile iniziamo a chiedere giustizia ed è entusiasmante vedere 82 familiari uniti per ottenerla dallo Stato, a quasi 30 anni dalla strage”. “Chiediamo alla magistratura di riattivarsi – aggiunge Loris Rispoli, presidente dell’associazione 140 – perché è assurdo aver ottenuto dalla politica quanto la stessa magistratura non ci aveva assicurato. Verità e giustizia devono arrivare dai tribunali anche a distanza di trent’anni”.

Il fatto che la causa prenda le mosse dai risultati della commissione d’inchiesta è un’unicità sotto il profilo giudiziario: secondo i legali delle famiglie, dovrebbe annullare anche il rischio prescrizione, poiché solo dalla pubblicazione della relazione conclusiva della commissione i familiari delle vittime hanno saputo “con certezza giuridicamente rilevante” che a contribuire alla morte dei loro cari è stata anche “la sostanziale abdicazione delle autorità responsabili del soccorso pubblico in mare”. Quindi della Capitaneria e di conseguenza dei ministeri cui dipendeva la sua azione. “Abbiamo buttato via una parte della nostra vita, soldi e salute per fare indagini parallele e dopo quasi 27 anni la commissione d’inchiesta ci ha dato ragione – si sfoga Angelo Chessa, figlio di Ugo, il comandante del traghetto, e presidente onorario dell’associazione 10 aprile – Bene, ma fa rabbia pensare di aver dovuto fare tutto questo per una cosa che non dovrebbe competere a te, ma allo Stato”.

Nel resoconto finale della commissione d’inchiesta e ripreso dall’atto di citazione, la Capitaneria di Livorno non adottò misure atte a scongiurare l’incidente – causato da una non chiarita “turbativa della navigazione” – lasciando stazionare in zona di divieto la petroliera Agip Abruzzo contro cui collise il Moby Prince e soprattutto non coordinò alcun intervento di salvataggio delle 140 persone imbarcate sul traghetto dopo lo scoppio dell’incendio, lasciandole morire nel corso della notte. Il nodo della questione si conferma quindi quello dei tempi di sopravvivenza a bordo del Moby Prince dopo l’incidente, ribaltati dalla perizia medico-legale disposta dalla commissione che ha rotto il dogma di una vita terminata per tutti i 140 entro le 22:55 del 10 aprile 1991. “È oggettivamente provato – scrivono i legali nell’atto – che la sopravvivenza a bordo è proseguita per diverse ore e che pertanto i soccorsi avrebbero potuto salvare vite umane”.

Anche per questo, per la prima volta nella lunga storia giudiziaria della vicenda, il documento indica come data del decesso di ciascuna vittima l’11 aprile 1991. Una novità che sposta l’immaginario di tutta la storia: dalla tragedia del 10 aprile, commemorata da 28 anni in questa data, alla strage dell’11 aprile 1991, di chi cioè poteva essere salvato e non lo fu per ragioni tutt’oggi al centro della difficile indagine penale – la terza – curata dalla Procura di Livorno. “Per la prima volta in trent’anni ho fiducia su quanto sta facendo la Procura di Livorno – aggiunge ancora a ilfatto.it Angelo Chessa – quella notte lo Stato ha abdicato alle sue funzioni di pubblica sicurezza e resta da capire a beneficio di chi. Solo scoprendolo e punendo i responsabili si potranno scongiurare altri eventi come quello del Moby Prince”.