Cronaca

Cucchi, che fine ha fatto Casamassima?

“Riccardo, è successo un casino: hanno massacrato di botte un ragazzo che hanno arrestato.” E’ con queste frasi che si arriva alla svolta sul caso di Stefano Cucchi. Grazie al “coraggio” e all’”eccezionale determinazione” di Ilaria, la sorella, la capacità e l’onestà di Giovanni Pignatone e di Giovanni Musarò, come scrive l’avvocato Fabio Anselmo sul suo blog.

Ma è il 2015 l’anno di svolta, quando il carabiniere Riccardo Casamassima riferisce questa “confidenza” di un superiore al pm Musarò. Roma riapre l’inchiesta. E Casamassima inizia a scontarla: “Noi abbiamo parlato, e siamo diventati carne da macello” – diceva in una intervista al Fatto Quotidiano. E il whistleblower, colui che “spiffera la verità”, quasi scompare dalla storia. Come mai? Ecco alcune ragioni.

“Non era più facile dire subito la verità?” – chiede Fabio Fazio ad Anselmo (durante la trasmissione Che tempo che farà). No, un gesto anti-corporativo che “svergogna” l’organizzazione di appartenenza può provocare ostracismo e ritorsioni – è un gesto eccezionale. Così Casamassima viene “cancellato” dal racconto per punti chiave che la trasmissione offre al pubblico. Un errore culturale, forse. Lo si vedrà più avanti.

“Siamo stati abbandonati”, ripete a disco rotto il whistleblower. Dichiarazioni frastagliate, sparse su vari media che sono, genericamente, le parole del “Carabiniere che ha denunciato i colleghi”. Un “protagonista ai margini”, che entra a intermittenza, dissonante. Noto ai cronisti attenti a ogni sviluppo, poco presente nel pubblico generico – così l’ostracismo dell’Arma ha gioco facile.

Definiamo il “ruolo” di Casamassima. E’ un whistleblower, “figura della denuncia” su cui in Italia c’è confusione. Più nota al giornalismo, di cui sono fonti, e alla psicologia sociale che indaga i meccanismi di esclusione sociale. Meno, a livello generale. Letteralmente, whistleblowing si traduce con “soffiare nel fischietto”. Rimanda all’arbitro, ma in senso più esteso a qualcuno che si fa carico di porre termine a un’azione illecita, o semplicemente non etica, quando in coscienza decide che la situazione ha “passato il limite”.

Già il termine, “soffiare” può essere stigmatizzato come “soffiata”: chi dice la verità diventa l’“infame”. Uno stigma che si è portato dietro tutta la vita Frank Serpico, il poliziotto whistleblower odiato dal New York Police Department di cui faceva parte.

L’Arma presenta il conto, si è detto. “Ringraziamo ‘sti pezzi di merda”, scriveva su Facebook un maresciallo dei Carabinieri, riferendosi anche alla moglie, anche lei carabiniere e parte decisiva nella denuncia. Sono seguiti per Casamassima – come lui stesso denuncia – il trasferimento, il demansionamento, la riduzione di stipendio, le sanzioni, le pressioni, le intimidazioni, le punizioni, gli insulti sul lavoro e le minacce. Perché “con un cumulo alto di punizioni ti possono fare fuori”, dice. Si perde il lavoro, insomma. Ad esempio: “Mi hanno aperto il profilo Facebook e da lì è partito un altro procedimento disciplinare”, “le nostre rappresentanze si rifiutano ogni volta di aiutarci”. Sono solo alcuni esempi.

La denuncia ha dato coraggio a Francesco Tedesco, un carabiniere anche lui imputato nel processo per omicidio preterintenzionale (insieme a Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, ma per lui è stata chiesta l’assoluzione, nda), che ha fatto entrare lo “sguardo pubblico” nella stanza del pestaggio mostrando i nostri “protettori” dare calci in faccia a un ragazzo a terra, inerme.

I vertici hanno reagito con la retorica delle “mele marce”. Ma Tedesco racconta che tentò di bloccare i colleghi, e che consegnò una “relazione di servizio” in cui segnalava le aggressioni. E che quella relazione sparì. Si aprono così altre indagini, quelle sui depistaggi, sulla linea gerarchica dell’Arma: indagati otto alti in grado. La metafora delle “mele marce” si fa sempre più “debole”, emerge un corpo che reagisce coeso salvando se stesso, costi quel che costi. E nel frattempo la ritorsione sul whistleblower prosegue: l’assordante retorica dell’”Arma che vuole la verità” in pubblico, il comportamento punitivo nei fatti.

Il whistleblower va dunque collocato dentro la storia in modo chiaro, netto, nel suo ruolo di protagonista positivo. Può esser utile “scannerizzare” il servizio in cui Che tempo che farà tira le fila della storia per passaggi chiave. Dopo aver riassunto gli esiti di processi che finivano in nulla, con Ilaria Cucchi sempre più disperata, il servizio presenta un punto di svolta: “il pestaggio di Stefano Cucchi raccontato per la prima volta in aula da uno dei protagonisti. Sceglie di parlare l’imputato Francesco Tedesco e non ha paura di mostrarsi in volto quando racconta la sua verità”.

L’immagine mostra Tedesco, ma l’uomo sceglie di parlare una volta che Casamassima ha fatto riaprire le indagini, è lui il protagonista. Che scompare. E scompaiono anche le ritorsioni in corso da parte dell’Arma. Il racconto proposto da Fazio aderisce così alla retorica delle “mele marce”, e consegna agli spettatori la narrativa semplificata e fuorviante di un ragazzo coraggioso (Tedesco, per cui vien chiesta l’assoluzione) che denuncia due colleghi violenti (incriminati), mentre la linea d’indagine che coinvolge la gerarchia dell’Arma praticamente scompare.

La ricostruzione soffre di una lacuna culturale, dunque, altrimenti va considerata l’ipotesi che certa opinione pubblica non voglia “far dispiacere” all’Arma. La “presa in carico” di Riccardo Casamassima deve arrivare dalla politica, dalla società civile e dall’opinione pubblica. Ma al di là dell’attenzione dei cronisti della giudiziaria, degli operatori del “pianeta carcere” e di alcuni supporter del carabiniere, sembra ancora assente la consapevolezza sociale del valore del gesto del whistleblower.