Ambiente & Veleni

Microplastiche, non tutti sanno che molte provengono dalle nostre lavatrici

Le microplastiche sono piccoli pezzi di plastica invisibili all’occhio umano senza l’ausilio di un microscopio.

I biologi marini concordano che la maggior parte delle microplastiche che stanno danneggiando la biosfera, il mare e la salute umana provengano non già dalle macroplastiche che in modo ben evidente ormai infestano tutti i mari del mondo (bottiglie di plastica, contenitori, ecc, non riciclati) ma dal lavaggio dei tessuti sintetici nelle nostre lavatrici. Un solo indumento sintetico può rilasciare fino a 1.900 microfibre quando viene lavato in lavatrice. Così le microplastiche entrano nella catena alimentare, con impatto chiaramente negativo sul pianeta e di grave danno sulla salute umana

I ricercatori dell’Università di Plymouth hanno scoperto che un carico di lavatrice di 6 kg può rilasciare più di 700mila microplastiche.

L’Italia, che gestisce meno dell’1% di lavatrici a livello mondiale, rilascia circa 120 kg di microplastiche ogni settimana attraverso le lavatrici domestiche: 120 kg di microplastiche equivalgono a 15mila sacchetti di plastica. Sei tonnellate di microplastiche l’anno equivalgono a 720 milioni di sacchetti di plastica

Quando io sono nato, nel 1957, la plastica praticamente non esisteva. Oggi, soltanto 62 anni dopo, è oggettivamente diventato uno dei maggiori problemi di inquinamento del mondo e, sia ben chiaro, non si tratta solo di bellezza e salute dei soli organismi marini, ma di danni in costante aumento alla salute umana perché interferisce con il sistema endocrino sino a determinare patologie gravi come il cancro. Combattere l’uso eccessivo ed indiscriminato di un bene prezioso ma sottovalutato in termini di pericolosità come le plastiche è perciò un dovere di qualunque governo in qualunque parte del mondo.

E da noi, nella Terra dei Fuochi campana, esiste un motivo in più per chiedere quello che assolutamente non si vuole fare: la tracciabilità della produzione tessile e pellettiera, che è “la più grande industria” della mia Regione.

Alcuni anni fa, in delegazione ufficiale con i Comitati ed accompagnati da Padre Maurizio Patriciello, andammo a supplicare direttamente Confindustria Campania, nella persona dell’allora presidente, il dottor Jannotti Pecci, di aiutarci affinché si promulgasse una legge in Parlamento che obbligasse alla tracciabilità, magari con un QR code, dei capi di vestiario e di scarpe e borse prodotti in Italia, ma soprattutto in Campania.

Una legge per la tutela del marchio, con la tracciabilità garantita del manufatto legale prodotto, sembrava un’ovvietà inspiegabilmente “dimenticata”, al contrario della tracciabilità delle nostre pummarole e delle nostre mozzarelle. Questa legge non è stata fatta e non si vuole fare.

Alla nostra domanda sul perché tante industrie che lavorano in nero nel settore dei vestiti, delle scarpe e delle borse, riescono a bloccare persino in Parlamento qualunque tentativo efficace di tracciabilità secondo legge, la ineffabile risposta del presidente Jannotti Pecci che ci lasciò di stucco fu: “Confindustria non può aiutarvi per un semplice motivo: perché questi imprenditori ‘a nero’ non sono ovviamente nostri iscritti”. Restammo esterrefatti in silenzio, ringraziammo per la cortesissima ospitalità e andammo via.

Tutelare il marchio è un diritto/dovere delle imprese che nel settore del tessile ora avrebbe un importantissimo motivo in più di concretizzarsi: ridurre la commercializzazione e/o gravare con una tassa tutti i prodotti di qualità inferiore o scadente che, con una percentuale maggiore e/o interamente in fibra sintetica, diventano quindi i maggiori inquinatori con tossiche microplastiche dei nostri mari. Molto, molto di più delle visibili bottiglie.

Da noi Medici dell’Ambiente della Campania in conclusione l’ennesimo invito-proposta: la tracciabilità dei manufatti tessili e pellettieri è oggi non solo una priorità per combattere l’evasione fiscale nella nostra Regione ma soprattutto una esigenza prioritaria di tutela della salute pubblica dalle microplastiche che si liberano dai tessuti di minore qualità e dai capi contraffatti. Si potrebbe, più che creare una tassa, incentivare e ridurre le tasse alle aziende che si fanno carico in trasparenza di produzioni bio o con fibre esclusivamente naturali e della dotazione di sistemi di tracciabilità a tutela non solo del marchio, ma soprattutto della qualità della produzione tessile e pellettiera.

Le microfibre naturali (canapa, cotone, lana, pelle) non danneggiano la biosfera e la salute umana. Le microfibre sintetiche, ancor più se prodotte “a nero” e quindi innanzitutto anche con smaltimento degli scarti illegali “a nero”, certamente sì. Ormai dannatamente troppo!

Ps. segnalo ai miei lettori l’evento a cui prenderò parte