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Mafia, 50 anni fa il furto del Caravaggio a Palermo: storia di un quadro diventato mitico

Di sicuro c’è solo che fu un lavoretto facile facile: una finestra a piano terra, nessun inferriata e neanche l’ombra di un allarme. Solo un cancello da scavalcare, un taglierino per incidere la tela e un tappeto dentro cui arrotolarla, per proteggerla dalla pioggia. Già, la pioggia: in effetti fu la parte più difficile di tutta questa storia. Pioveva incessantemente a Palermo quella notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969. Ed è per colpa di quella pioggia che forse il Caravaggio perduto non esiste più: i due ragazzotti che lo rubarono decisero di arrotolarlo dentro a un tappeto per portarselo via.

“Quella decisione si è rivelata fatale”, ha detto all’Agi Maurizio Ortolan, l’investigatore che ha interrogato Francesco Marino Mannoia, uno dei tanti pentiti di mafia che ha fornito rivelazioni sulla preziosissima tela. Perché fatale? “Mannoia – spiega Ortolan – ha detto che quando hanno aperto la tela, la vernice si era parzialmente disintegrata“. Il motivo lo spiega Michele Cuppone, esperto del dipinto scomparso: “Arrotolare dall’interno una tela del 1600 è uno dei peggiori errori che si possa fare. Ci sono stati altri casi di dipinti rubati che erano stati arrotolati. Tutti erano segnati da profonde crepe orizzontali per l’intera lunghezza della tela”.

Chissà se è andata così anche per la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Michelangelo Merisi. Considerata una delle opere più commoventi del Caravaggio, è diventato uno dei dipinti più leggendari di tutta la storia dell’arte. Merisi lo aveva realizzato nel 1609 durante un suo soggiorno a Palermo, sempre contestato dagli storici dell’arte. Ed è nel capoluogo siciliano, all’oratorio di San Lorenzo, nel cuore del centro storico della città, che quel dipinto è rimasto per circa 350 anni. Poi nella notte di mezzo secolo fa il buio: da allora il Caravaggio perduto è diventato fonte d’ispirazione per romanzieri, oggetto del desiderio di collezionisti senza scrupoli e chiodo fisso degli investigatori.

In quasi 50 anni lo hanno cercato ovunque. Quasi fosse un latitante ne hanno stilato schede identificative diffuse in tutto il mondo: 2 metri e 68 per un metro e 97 e un valore di mercato che oggi si aggira sui trenta milioni di euro. Per l’Fbi è uno dei furti d’arte più importanti di tutti i tempi, insieme a uno Stradivari rubato a New York e a un Picasso svanito a Rio de Janeiro.

Si pensò subito a un furto su commissione. Ma a Palermo c’è un solo service capace di un’operazione simile: Cosa nostra. Tra il 1971 e il 1994 un fascicolo aperto dai carabinieri del nucleo per la Tutela del patrimonio culturale è stato riempito con decine di “soffiate”, “informative”, addirittura “trattative” avviate con presunte “fonti confidenziali”: niente. Del Caravaggio perduto nessuna traccia. Nel 1980 lo storico britannico Peter Watson raccontò di aver ottenuto un appuntamento da un mercante d’arte che voleva vendergli il quadro scomparso. Doveva vederlo la sera del 23 novembre, in provincia di Salerno, ma il terremoto dell’Irpinia mandò a monte l’incontro. Nel 1989 Leonardo Sciascia, rimasto impressionato dal furto compiuto vent’anni prima, decise di dedicare a quel mistero il suo ultimo racconto, Una storia semplice.

Tanto semplice, però, non era. Anzi era talmente complessa che la storia del Caravaggio perduto cominciò subito a ispirare una serie di leggende. Racconti che avevano sempre un’ombra nera sullo sfondo: quella di Piovra. Si disse per esempio che il quadro venne rubato ed esposto durante le riunioni della Cupola, per mettere in mostra il potere e il prestigio dei padrini. Nossignore, sostenne Vincenzo La Piana, nipote del boss Gerlando Alberti e primo pentito a raccontare la presunta fine della Natività palermitana. Per La Piana il dipinto venne seppellito in una cassa di ferro insieme a cinque chili di cocaina a alcuni rotoli di banconote: i tesori di suo zio Gerlando. Nel luogo indicato agli investigatori, però, la cassa col dipinto non venne mai trovata.

Nel frattempo arrivarono gli altri pentiti, quelli d’alto livello. Mannoia raccontò al giudice Giovanni Falcone che il Caravaggio perduto non esisteva più: venne arrotolato in fretta la notte del furto. Errore fatale, spiegano gli esperti. Nel 1996 Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, ha sostenuto di aver utilizzato il dipinto per una sorta di trattativa con lo Stato: l’alleggerimento del 41 bis, il carcere duro per detenuti mafiosi, in cambio del quadro. Lo Stato – almeno quella volta – rifiutò. Per Gaspare Spatuzza, l’uomo della strage di via d’Amelio, la tela venne conservata in una stalla in attesa di trovare un compratore. Che non arrivò mai. Solo che in quella stalla c’erano anche i maiali che si cibarono dell’opera del Merisi.

L’ultima soffiata in ordine di tempo appartiene al pentito Gaetano Grado ed è contenuta nella relazione finale della commissione Antimafia della scorsa legislatura. Un racconto in cui Cosa nostra recita il ruolo di procacciatrice d’opere d’arte per mercanti senza scrupoli: recupera il quadro rubato da alcuni piccoli malavitosi e lo vende all’estero, in Svizzera. “Il furto – ha detto il padrino di Santa Maria di Gesù – maturò nell’ambiente dei piccoli criminali, ma l’importanza del quadro e il suo enorme valore, subito evidenziato dalla stampa, indussero i vertici di Cosa nostra a interessarsi alla vicenda e a provvedere a rivendicare l’opera”. “Grado era una delle persone molto vicine a Badalamenti, ci ha detto che quando Badalamenti venne a conoscenza che certi ragazzi, dei balordi, si erano impossessati di quest’opera d’arte se la fece consegnare e riuscì a mettersi in contatto con un importante acquirente proveniente dalla Svizzera“, ha spiegato l’ex presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi.

“Già nel 1970 il capo della Cupola – rivela Grado – Gaetano Badalamenti curò il trasferimento del quadro all’estero, verosimilmente in Svizzera, dietro il pagamento di una grossa somma in franchi. Badalamenti mi disse che il quadro era stato scomposto per essere venuto sul mercato clandestino”. Rubato dai balordi, recuperato dal boss dei boss, tagliato a fette per nasconderlo meglio e venduto grazie all’intercessione di un antiquario svizzero, arrivato a Palermo per l’occasione. Un uomo morto da tempo, ma che Grado ha riconosciuto in fotografia: un dettaglio che ha portato all’apertura di una nuova indagine da parte della procura di Palermo nel giugno dell’anno scorso.

I reati commessi sarebbero tutti prescritti ma magari il Caravaggio perduto esiste ancora. O forse no: è andato distrutto già poco dopo quella notte di 50 anni fa. Per mezzo secolo ha ispirato scrittori come Sciascia, romanzieri come Luca Scarlini, attori come Salvo Piparo, che al furto del quadro ha dedicato uno spettacolo teatrale messo in scena all’oratorio di San Lorenzo: così il Caravaggio perduto sopravvive.