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Brexit, fusse che fusse la volta buona

Se ve vanno davvero? 40 mesi quasi giusti giusti da quel 23 giugno 2016, la Gran Bretagna pare davvero sul punto di lasciare l’Unione europea, come sancito dalla vittoria dei Leave sui Remain in un referendum la cui campagna fu un teatro – ovviamente, dell’assurdo – d’errori (e orrori) politici e di fake news, funesta anticipazione dell’altro voto svoltosi sotto gli stessi segni l’8 novembre di quell’anno.

Che i britannici lascino l’Unione, è una notizia triste. Ma che cessino di tenerla ostaggio delle loro paturnie, è una buona cosa.

Poche ore or sono, a Bruxelles, i negoziatori dell’Ue e del Regno Unito hanno raggiunto un’intesa sulla Brexit, che l’attuale governo britannico guidato da Boris Johnson vuole assolutamente realizzare il 31 ottobre, accordo o non accordo – c’è l’incubo del ‘no deal’. E’ fatta, dunque? Attenzione! L’Ue aveva già trovato un’intesa con il governo di Sua Maestà guidato da Theresa May, ma i Comuni l’avevano sempre respinta, nonostante ritocchi e aggiustamenti. Finché la May se ne andò e arrivò Johnson, più decisionista ma pure più sbruffone.

L’accordo ora negoziato, che sarà certamente avallato dai capi di Stato e di governo dei 27 riuniti a Bruxelles per il Vertice europeo, non è necessariamente migliore dei precedenti, specie dal punto di vista britannico. Tant’è che voci critiche si sono subito levate a Londra: dall’opposizione – e fin qui va bene –, ma anche da dentro la maggioranza – che s’è erosa cammin facendo.

Gli ostacoli politici da superare, perché i britannici se ne vadano davvero, e se ne vadano con un’intesa, sono la ratifica dell’intesa da parte dei Parlamenti britannico ed europeo, dopo l’ok dei leader dei 27. I Comuni voteranno sabato 19; l’Assemblea di Strasburgo potrebbe farlo la prossima settimana, anche se i tempi sono stretti. I negoziatori volevano chiudere il ‘patto di divorzio’ prima del Vertice europeo e ci sono riusciti, in extremis.

E così l’agenda del Vertice, l’ultimo prima del rinnovo delle Istituzioni comunitarie, il cui avvicendamento è slittato di un mese, dal primo novembre al primo dicembre, s’arricchisce e, nel contempo, si sdrammatizza: basta mettere una firma in calce all’accordo sulla Brexit, ma resta da discutere che cosa fare nei confronti della Turchia, che invade la Siria, minaccia di lasciare fluire verso l’Europa due milioni di profughi e vuole andare a trivellare nelle acque cipriote; se aprire i negoziati per l’adesione all’Ue con la Macedonia del Nord e l’Albania – per un Paese che se ne va, ce ne sono sei, quelli dei Balcani occidentali, che bussano alle porte -; e ancora il cambiamento climatico; il bilancio settennale dell’Unione 2021-2027 e le priorità per il quinquennio 2019-2024, la nona legislatura del Parlamento europeo eletto a suffragio universale.

Nella vicenda della Brexit, hanno sempre fatto tutto loro, i britannici: hanno voluto indire il referendum senza che ve ne fosse la necessità; hanno deciso di andarsene; hanno scelto quando farlo (inizialmente entro il 29 marzo) e non ci sono riusciti; hanno fatto patti e non li hanno ratificati. Al confronto, i 27 sono stati dei soldatini: abituati a cavillare e dividersi spesso e su tutto, sono stati fermi e compatti dall’inizio alla fine della trattativa, ben condotta dal loro negoziatore Michel Barnier.

Ora, non è detto che sia finita: la difficoltà cruciale da superare era quella della frontiera tra l’Ulster e l’Eire, l’unica frontiera di terra fra l’Ue e il Regno Unito. La soluzione trovata, almeno fino al 31 dicembre 2020, nell’attesa che Ue e Gran Bretagna negozino e chiudano un nuovo accordo di libero scambio, sposta in pratica in mezzo al Mare d’Irlanda il confine tra l’Ue e la Gran Bretagna, lasciando di fatto l’Ulster dentro l’Ue – dal punto di vista mercantile – ed evitando di riproporre la spaccatura dell’Irlanda forviera, fino agli Anni 90, di violenza e terrorismo. Di questa formula, Theresa May aveva detto che nessun premier britannico l’avrebbe mai accettata.

La soluzione concordata non soddisfa il Dup (Democratic Unionist Party), il piccolo partito nord-irlandese che, coi suoi tre deputati, è essenziale alla maggioranza conservatrice: i suoi no furono già determinanti nelle bocciature degli accordi della May. Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea al passo dell’addio, ha un bel dire che l’intesa è “equa ed equilibrata”: deve convincerne i Comuni, non gli europei. Johnson ‘lo Squalo’ vuole mettere i deputati britannici di fronte a un’alternativa drastica: o questo ‘deal’ o ‘no deal’, ma comunque Brexit il 31 ottobre. Allora, se ne vanno davvero?