Politica

Salvini si è fatto le scarpe da solo. Ma nessuno in casa Lega se n’è ancora reso bene conto

Parliamo della Lega. Parliamo di Matteo Salvini. Parliamone, se ci è consentito, frigido pacatoque animo. E cioè a mente fredda e studiando “dal di fuori” la crisi più pazza del mondo; estraniandoci, se possibile, da prospettive partigiane. Prescindiamo da chi è Salvini (e ciascuno si tenga il suo santino in macchina, se ce l’ha, o la maglietta con l’insulto preconfezionato, se la indossa) e guardiamo a ciò che Salvini ha fatto, innescando la crisi.

In estrema sintesi: con un colpo da maestro, e per la gioia di chi non vedeva l’ora di toglierselo dai piedi, si è fatto le scarpe da solo. Strike! Otto piccioni con una fava:

1) perdere il governo del paese con tutte le poltrone, le prerogative, la visibilità annesse e connesse;

2) riesumare due partiti moribondi, Pd e Movimento, in costante picchiata nel gradimento degli italiani;

3) regalare la nomina del prossimo Presidente della Repubblica al Pd proprio nel momento in cui, dopo decenni, si profilava la possibile elezione di un Capo dello Stato estraneo alla filiera delle antiche “casate”: democristiana, comunista e catto-comunista;

4) condurre, con elevata probabilità, all’ascesa di Romano Prodi al Quirinale (che sta all’elettorato leghista come l’aglio ai vampiri);

5) consentire ai propri avversari di scrivere le prossime “regole del gioco”: una legge elettorale che sarà accuratamente studiata – come vuole una elementare logica machiavellica (l’unica logica politicamente “logica”) – per favorire in ogni modo il Movimento e il Pd e per sfavorire in ogni modo la Lega;

6) perdere la possibilità storica di negoziare “tra amici” l’autonomia delle regioni del Nord;

7) devolvere la gestione dei confini e del rapporto con l’Europa al partito più immigrazionista e filoeuropeista del bigoncio;

8) consegnare le chiavi del futuro, quantomeno i prossimi quattro anni salvo sorprese, nelle mani dei propri antagonisti. E quattro anni, in politica, sono un secolo. Basta assai meno di un quadriennio per sgonfiare un 40% di consensi e Matteo Renzi lo ha dimostrato da par suo.

Ergo? Ergo, alla luce di quanto sopra, l’errore di Salvini sarebbe, se non perdonabile, quantomeno scusabile solo a due condizioni:

a) che fosse stato il frutto di un ordine ricevuto da fuori confine e rispondente a dinamiche geopolitiche non “resistibili”, per così dire;

b) che fosse stato l’effetto di un ricatto a cui obbedir tacendo.

Entrambe le ipotesi sono complottistiche, ma non troppo da risultare implausibili. Tuttavia, ambedue sono state anche smentite dallo stesso Salvini nel momento in cui il Capitano – in aggiunta al pachidermico peccato originale – ha infilato pure le seguenti “perle”:

1) tornare sui propri passi chiedendo a Luigi Di Maio di rimettersi insieme;

2) giocarsi la faccia ritirando la mozione a Giuseppe Conte dopo averla proposta;

3) tentare il tutto per tutto, offrendo la premiership all’altro vice;

4) riconoscere di essere stato “ingenuo” nel fidarsi delle rassicurazioni ricevute da Nicola Zingaretti prima di tentare l’azzardo.

I primi dei tre punti succitati certificano che Salvini non aveva patito né pressioni né ricatti, altrimenti non avrebbe osato prodursi in una clamorosa marcia indietro. E smentiscono, altresì, la linea del Piave di certi autorevoli “avvocati difensori” del leader: quella secondo cui era ormai “impossibile” lavorare con i grillini, che quindi la scelta era “nelle cose”, “inevitabile”, “dovuta”, “sacrosanta” e persino sin troppo rinviata. Se così fosse, perché ritentare il matrimonio dopo aver chiesto il divorzio? Perché non provare a ricucire prima, anziché mettersi a pelle d’orso dopo? Posto che l’ipotesi di un’alleanza giallorossa post crisi non era neppure probabile. Era addirittura ovvia.

La quarta perla, però (quella della “ingenuità”, per usare l’eufemismo impiegato con discutibile auto-indulgenza da Salvini medesimo), è la più grave. Effettuare un all in di questa portata (con l’intento di ottenere i “pieni poteri”) sulla base delle “garanzie” offerte dal proprio nemico numero uno non è neppure un errore. È una scelta che rasenta il masochismo patologico, estranea a quella soglia minima di prudenza, lungimiranza, avvedutezza che dovrebbe connotare qualsiasi leader politico; persino se digiuno di letture “alte” tipo Il Principe di Machiavelli.

Ed è una decisione che non è stata minimamente “compresa” nella sua tragica enormità neppure dalle menti più fine interne alla Lega. Tutti i leghisti – simpatizzanti, elettori, eletti, consiglieri vari – sono ancora comprensibilmente sotto shock per quello che interpretano esclusivamente come un “tradimento” dei 5 Stelle. Foss’anche un disgustoso adulterio, quello pentastellato, sarebbe solo il secondo anello di una catena surreale di eventi. Il primo anello è il pasticcio del Papeete.

Eppure, la presa di coscienza collettiva, nell’universo leghista, non è ancora cominciata. Proprio come il Capitano non è stato in grado di guardare al di là del proprio naso all’atto di bruciarsi i ponti alle spalle, gran parte del suo esercito non vuole “riconoscere” la scaturigine principale, ed esclusiva, del più indecifrabile caso di suicidio di massa – eseguito da un unico individuo – che la storia, non solo politica e non solo italiana, ricordi.

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