Cronaca

La storia di Mari, da manager a colf. Una dei tanti invisibili che sono tra noi, ma non con noi

Si aggirano come ombre, quasi per paura di disturbare, e si fanno invisibili tra le nostre case. Sulle nostre strade, tra le pieghe delle nostre vite indaffarate, nelle quali la loro non occupa che qualche pensiero superficiale e passeggero. Lavano i nostri vecchi, puliscono le nostre case, accudiscono i nostri figli, ci consegnano il cibo che non vogliamo cucinare, si accucciano sui nostri campi e vigneti, guidano i camion con i nostri prodotti alimentari. Svolgono lavori per i quali gli italiani non sono più “tagliati”, persuasi di meritarsi occupazioni socialmente più ambiziose. L’immigrato è una figura chiave per tirare avanti un’economia basata sulla vessazione sociale a prezzi stracciati, e al contempo presta il fianco, suo malgrado, agli ululati viscerali della folla.

Entrano nelle nostre vite da molteplici porte, ma per qualcuna l’uscita di scena è tragica. È il caso della colf filippina Marilou Reyes, morta mentre puliva i vetri della casa di Milano dove abitava e lavorava. Marilou era in procinto di interrompere la sua esperienza in Italia e ristabilirsi nelle Filippine con la sua famiglia. Come Guillaume, bancario in Camerun ora operaio, Aldin insegnante in Albania e muratore qui, Isa segretaria in Nigeria e operatrice sociale in Italia, anche Marilou aveva un passato lavorativo più “nobile” da manager in un’azienda prima di arrivare in Europa.

Quasi tutto lo stipendio veniva inviato per l’istruzione dei figli, perché “anche l’operaio vuole il figlio dottore”, e la tenace pretesa di chi aspira a un futuro migliore non ha nazionalità. Moltissime sono le donne che lasciano famiglia e figli piccoli per obbedire a un destino comune, quale che sia la loro posizione geografica, e farsi protagoniste della “cura della persona”. Il prezzo che queste moderne guerriere pagano è altissimo, come riportato dal Corriere in un’inchiesta di qualche mese fa, e può condurre a quella che è stata definita “Sindrome Italia”, un disturbo post-traumatico che racconta di una guerra più sottile, senza armi, contro i demoni di vite spezzate spese ad accudire corpi stranieri, spesso irriconoscenti.

Figure marginali dallo scarso peso sociale e tuttavia oggetto di incalcolabile valore mediatico e politico. Sono tra di noi, ma non sono con noi. Eppure tutti parlano di loro.

“Restiamo umani”, è l’esortazione di alcuni. Ma al netto delle ideologie politiche, come umanità sempre più robotizzata, abbiamo perso il contatto con l’altro. Un altro che è talvolta minaccioso, ma più spesso ininfluente sulle nostre vite umanamente insensibili. Ci ingozziamo di foto di cibo, condividiamo gli slogan più popolari e divertenti del momento sulla bacheca Facebook, commentiamo il selfie in costume di qualcun altro. La nostra è una vita autoreferenziale tiranneggiata da un Io smisurato.

Quel che importa è esportare la propria idea di vita, inseguendo lo sfuggente desiderio di popolarità; impossibile interiorizzare quella degli altri. Che se non sono glamour o non hanno followers, sono out. Non appena alziamo – letteralmente – lo sguardo innanzi a noi, quel che compare inquieta, infuria, si fatica a gestire il reale, tanto scollato risulta da quell’altra esistenza simulata sui social. Questo vivere fittizio, insieme a tutti e mai con nessuno, sta togliendo all’uomo la capacità di immedesimarsi nell’altro, di comprenderlo come essere umano.

Come si può restare umani in un mondo dove la vita degli uomini è a peso di voto e dove tutto viene oscenamente esposto, oltraggiato? Anche l’ultimo dei tabù, la morte, non ci tocca più. Guardiamo tutto, ma dentro niente resta. È solo un’altra delle tante immagini che ci scorrono davanti. Difficile restare umani in un’epoca in cui è più popolare baciare un rosario che aprire i porti, dove si sostengono (giustamente) campagne contro l’abbandono dei cani in estate e poi ci è indifferente se per settimane uomini e donne vengano lasciati a se stessi, su navi di fortuna.

Gli spiriti di queste vite alle quali non abbiamo prestato attenzione, per le quali non abbiamo saputo fare abbastanza, sulle quali abbiamo speso parole di rabbia pensando che arrivassero a depredarci di qualcosa non loro, resteranno attaccati a questa umanità senza più pietà. Un’umanità autoprofessatasi “civiltà” e della quale, sui libri di storia, non resterà che meschina memoria.