Società

Peggio dell’intolleranza degli intolleranti c’è solo l’intolleranza dei tolleranti

Peggio dell’intolleranza degli intolleranti c’è solo l’intolleranza dei tolleranti. I primi, di solito, si definiscono tali tramite verdetto popolare, mentre i secondi tramite autocelebrazione. Amiamo pensarci buoni, migliori, diversi, ma proprio il nostro rapporto con la diversità è alquanto egoistico e superficiale. La diversità non è solo prerogativa del prossimo, ma la portiamo inevitabilmente in dote anche noi nell’incontro con l’altro. La condizione umana è relazionale: nel dialogo l’essere umano vive al massimo delle potenzialità, si rende fecondo, incontra il contrasto e si dota degli strumenti necessari per farvi fronte, allenando spirito, intelletto e capacità.

Il pensare l’altro diverso e il pensarci diversi sono facce della stessa medaglia, sono l’equilibrio necessario a non cadere in forme di odio, razzismo e livore che annientano le relazioni. Diversità non vuol dire meglio o peggio: crederlo significa partire dal nostro punto di vista, ma rimanervi fermi, perdendo l’altro o meglio negando il suo valore. Il proprio punto di vista è punto di partenza, certamente, ma non punto di arrivo: a esserlo è il punto di vista dell’altro, in un tragitto che fa dell’apprendimento e della crescita i propri compagni di viaggio. All’altro io arrivo se mi muovo verso di lui o se lui muove verso di me, in un processo che entrambi gli attori possono facilitare o ostacolare, altrimenti la distanza non cessa di essere ciò che ci tiene lontani e sconosciuti: si sa che è proprio quel che non si conosce a spaventare. Il buio che tutto nasconde è una delle più antiche paure umane: il fuoco, che non solo riscalda ma illumina, ha permesso all’uomo di evolversi.

Andare incontro non significa aderire, omologarsi, annullarsi, ma rimarcare la propria individualità senza sentirla minacciata. È la diversità che la fa risplendere e la trasforma in un ponte che possiamo attraversare e che risulta in grado di reggere i pesi della vita. Incontrare altri modi di pensare significa far evolvere il proprio: nel momento in cui accetto quanto l’altro mi porta, non devo farlo mio, ma devo fare mia la consapevolezza che quanto pensa e sente ha pari dignità di quanto io penso e sento, a patto che non lo trasformi in azioni lesive verso se stesso o il prossimo.

L’altro è confronto continuo: nell’identicità ritrovo me stesso, ma non cambio; mi rinforzo, ma mi irrigidisco, imparo a bastarmi forse e di conseguenza ad accontentarmi. Nella diversità opera il conflitto, ma gli schieramenti in campo devono avere forze paritarie perché nella diversità non abbiamo un vincitore e un vinto, non è una guerra, ma un riequilibrio di forze, una tendenza ad andare non sopra le cose, ma oltre le cose.

Siamo generatori di significato, non semplici recettori. La sfida continua è riuscire a comprendere quanto di quello che attribuiamo all’altro è solo una proiezione di noi stessi, di quello che siamo noi a sentire. Capire il confine significa rispettare il suo essere estraneo a noi nella sua autenticità. L’altro è mio nemico nella misura in cui mi vede arrivare con intenzioni bellicose e se è vero che lo sono anche io, nella misura in cui lo vedo arrivare a me con altrettante intenzioni, a volte è necessario che uno dei due smetta di attaccare perché l’altro cessi di difendersi.

Vignetta di Pietro Vanessi