Società

L’uomo con le nespole: le foto dicono ciò che vogliamo sentirci dire. Altro che dignità del Sud

Sta suscitando da giorni una certa commozione la fotografia di un uomo anziano appoggiato a un muro mentre guarda per terra, vicino a una bilancia e a delle cassette di nespole (ah, frutto quanto mai verista!). L’uomo è stato immortalato a Civita, comune dell’Arbëria (la comunità degli albanesi d’Italia) in provincia di Cosenza. Quell’uomo anziano “vestito in modo elegante”, che attende con mitezza che qualcuno compri il suo raccolto, è stato descritto dal Corriere della Sera come una sorta di personificazione della dignità del Sud.

E, a ruota, si è unita una lunga sequela di lirici cantori del contadino meridionale dallo sguardo basso, idealmente – e immancabilmente – contrapposto al mafioso meridionale. Citiamo, per tutti, il Pino Maniaci di Telejato, il quale ha scritto che “in Calabria ci sono tante persone perbene come lui, e poi ce ne sono altre prive di valori che controllano il territorio con le loro attività illecite”. O contadini dallo sguardo basso, poveri ma dignitosi col vestito della domenica, oppure delinquenti.

Abbiamo scoperto solo dopo che quel signore si chiama Zi’ Demetrio. Perché il nome e la storia non interessano al fotografo. La fotografia cristallizza un momento, una posa plastica, tacitando vicende e soggettività, fermando la Storia, forcludendo i nomi. Orbene, questa fotografia, più che rappresentare la dignità di un popolo, denuncia in modo indiretto lo sguardo mediterraneista non tanto di chi l’ha scattata, ma di chi la guarda. La descrizione del Sud è sempre passata attraverso questo approccio orientalizzante, anche grazie alla fotografia. In un primo momento, i viaggiatori che arrivavano al Sud descrivevano il paesaggio ubertoso, dimenticando gli abitanti. Nel Sette-Ottocento, la descrizione del paradiso (abitato da diavoli) cominciò a lasciare spazio alla presenza degli uomini, descritti per lo più attraverso il pittoresco: il primitivo, il selvaggio e soprattutto il “popolo”. Non è un caso se un grande fotografo orientalista come Maxime du Camp, amico e accompagnatore di Flaubert in Egitto, arrivato in Calabria descrisse Maida come una cittadina turca o “ebrea”.

Ma torniamo alla fotografia: essa cristallizza, si diceva, la realtà, la rende statica e immodificabile. Ma per fortuna l’antropologia critica sa che la fotografia ha avuto un ruolo in quella disciplina (e oltre): produrre certezze e ridurre la complessità entro un’ottica funzionale allo sviluppo della società borghese. Dietro il lirismo, si cela un programma “scientifico” di alterizzazione, di produzione dell’Altro. Ne dà testimonianza Renato Fucini, che quando si reca a Napoli e ne scrive un reportage (siamo nel 1877) colleziona una tale teoria di similitudini con l’Oriente da far pensare al lettore che stare a Napoli fosse come stare a Costantinopoli o al Cairo. Ma da dove aveva preso questi raffronti Fucini? “Io non conosco l’Oriente, né conosco la Spagna altro che dalle descrizioni dei viaggiatori, dai libri letti, dai dipinti e dalle fotografie; ma se questo può servire, come io credo, a dare un’idea abbastanza esatta di quelle regioni…” etc. Fucini non era mai stato a Costantinopoli, gli bastava desumere le somiglianze dai racconti di Edmondo De Amicis o dalle foto.

Insomma, per conoscere l’Altro, sembrano dirci costoro, basta guardarlo attraverso le fotografie. In realtà, esse riproducono ciò che vogliamo sentirci dire, anche al di là della buona fede di chi personalmente ha eseguito lo scatto. Il mediterraneismo che la foto produce restituisce un Sud ipostatizzato, lirico, fuori dalla Storia. Mentre la Calabria veniva scossa dalle rivolte contadine per la terra che – a cavallo tra la prima e la seconda metà del Novecento, ignorate e screditate da intellettuali e dirigenti progressisti (con l’eccezione di persone come Panzieri o Cinanni) – producevano sconquassi politici, le fotografie di Patellani rappresentavano, come ci racconta Francesco Faeta in alcuni suoi studi, un Sud riottoso verso la democrazia.

Se tutto ciò era noto a un occhio critico allenato, oggi è tornato come inversione dello stigma e capovolgimento del pregiudizio: ciò che era mediterraneismo come produzione e rafforzamento dello stereotipo negativo, si è rovesciato in elemento identitario positivo. Ed ecco che il contadino – arcaico nella sua posa, “dignitoso” nella sua mise – che una volta avrebbe rappresentato il Sud arretrato e rurale, fuori dal progresso, oggi è l’incarnazione di un Sud altrettanto lirico, oleografico, il cui riscatto non passa dalle lotte ma dalla meme-izzazione della realtà.