Politica

Il caso Calenda e le promesse mancate della democrazia

Nel 1984 faceva la sua apparizione sullo schermo televisivo nello sceneggiato Cuore girato dal nonno Luigi Comencini un incolpevole undicenne. Il suo nome è Carlo Calenda, figlio di Cristina, e avrebbe fatto parlare molto di sé. Infatti Calenda, abbandonata la veste di enfant prodige del cinema, già nel 1998, alla tenera età di 25 anni, comincia a lavorare per la Ferrari, allora presieduta da Luca Cordero di Montezemolo. Calenda diverrà in qualche modo il pupillo di ‘Luca, il marchesino dei bolidi’, come lo chiamava con sarcasmo Furio Jesi negli anni 70 riprendendo il titolo di un articolo apparso su Grazia del 28 settembre 1975. Lì, secondo l’analisi di Jesi, Montezemolo viene rappresentato come esponente paradigmatico di un incontro tra ‘lusso spirituale’ e ‘lusso materiale’ tipici di una certa cultura di destra.

Dopo vari elogi, il giornalista Marco Mascardi racconta l’epopea del ‘marchesino’ e come diventò, giovanissimo, direttore sportivo della Ferrari. Montezemolo studia, ma si annoia. Allora compra di nascosto un’auto da competizione e arriva quarto a una gara. ‘L’Ingegnere’ lo chiama per un colloquio e lo nomina appunto direttore sportivo. Riporta Mascardi: “È la grande investitura. A suo tempo, è così che si diventava Cavalieri del Re”. Calenda segue Montezemolo in Confindustria e poi diventa coordinatore dell’associazione di quest’ultimo, Italia Futura. Al Corriere della Sera, nel gennaio 2013, parla di “vocazione maggioritaria”, di terzo polo alternativo al Pd e PdL, di vincere le elezioni. Si candida e non viene eletto. Sappiamo come andò alla lista Monti e a Scelta civica. Ma Calenda risuscita, viene reclutato per cooptazione da Letta, che lo nomina vice-ministro, confermato poi da Renzi; viene mandato in Europa, da cui rientra direttamente ministro del governo Renzi (al posto della Guidi), riconfermato da Gentiloni. Bottini strikes back, per fare il verso a un articolo di Umberto Eco su Franti.

In tutto questo, neanche un’elezione. Una carriera politica fondata sulla pura cooptazione: dal management alla politica, senza passare mai dalle urne. Un ‘tecnico’. Che però ha pretese politiche: si candida, lo candidano, a guida del Pd, prende la tessera, minaccia di strapparla, è attivissimo su Twitter, passa intere giornate a commentare qualsiasi tema politico, conciona su molte cose. Ma ancora niente elezioni. Alle Europee fa il grande passo, desidera la legittimazione delle urne. E viene eletto con un bel margine.

Perché tutto questo rappresenta l’incarnazione di una delle più tragiche ‘promesse mancate’ della democrazia? L’espressione fa riferimento a un fortunato libro di Bobbio. Non è questo il luogo per riprendere la discussione sui limiti e i problemi della democrazia rappresentativa né sulla riapparizione degli arcana imperii sotto forma di ‘governi tecnici’, né per discutere i limiti stessi della teoria di Bobbio. Però il caso Calenda dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, come le elezioni siano non più (qualora lo fossero mai state) il momento di scelta dei rappresentanti, ma la consacrazione ex post di scelte fatte sia prima che altrove. Prima ovvero antecedentemente all’investitura politica, che invece dovrebbe precedere; altrove ovvero fuori dal consesso della decisione pubblica, che proprio in quanto tale deve avere il crisma della ‘pubblicità’ e della visibilità.

Stupisce come tutto questo non faccia più problema, ma sia ormai quasi unanimemente accettato come pratica corrente di selezione del personale politico. Nella riflessione politologica sull’elitismo democratico questa circolarità dei partiti politici, che decidono il prima e il dopo bypassando la legittimazione democratica, è parsa inquietante. L’autoreferenzialità dei partiti infatti ha destituito di credibilità la rappresentanza consegnando la politica a un potere che si auto-riproduce, e che solo dopo che ha scelto evoca una qualche forma di ‘mandato’.

Ma allora dobbiamo davvero rassegnarci alla Realpolitik di chi ritiene la democrazia rappresentativa un guscio vuoto? E se è così, non è ipocrita continuare a difendere la rappresentanza contro le battaglie – velleitarie quanto si vuole ma con il merito di aver mosso le acque di un dibattito che era ingiustamente su un binario morto – di quelle parti politiche che pretendono di discutere di sovranità popolare, democrazia diretta, mandato imperativo? È ancora così che si diventa ‘Cavalieri del Re’?