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Ciclismo, questa Milano-Sanremo è stata abbastanza brutta

da Sanremo

Una giornata molto bella per una corsa abbastanza brutta: scivolata per sei ore e mezza senza emozioni sino alla dirittura finale di via Roma. Sotto un sole tiepido, un cielo azzurro e per compagni di strada i profumi della fioritura precoce, la centodecima Milano-Sanremo è stata vinta da un francese guascone e talentuoso che ha un nome da moschettiere: Julian Alaphilippe. Un successo annunciato: arriva due settimane dopo la sua vittoria nella suggestiva e faticosa Strade Bianche e pochi giorni dopo uno sprint vinto alla Tirreno-Adriatica che della Sanremo è la palestra per affinare la forma (se è a buon punto). Insomma, ha primeggiato il favorito di quest’inizio di stagione.

Non se ne abbiano i sovranisti di casa nostra: mentre sto scrivendo riecheggiano a due passi dal teatro Ariston – il tempio del Festival della canzone “prima gli italiani” – le irruenti note della Marsigliese e Macron ha già inviato un telegramma di congratulazioni al forte capitano della Deceuninck-Quick Step che ha regalato alla Francia un prestigioso successo in territorio ostile, e in un momento di rapporti bilaterali fortemente in crisi. La revanche, tagliano corto i nostri cugini d’Oltralpe. La rivincita…

Da sempre il ciclismo, che è sport di strada, si presta ad essere appendice della storia di popolo. Corse. Ma anche corsi e ricorsi. In fondo Alaphilippe ha ricucito in un certo senso la provvisoria storia della Sanremo – provvisoria perché ogni anno può mutare. Il primo a far sua la “classicissima di primavera” fu il celebre Lucien Petit-Breton, nel remoto 1907, quando si consumavano gli ultimi fuochi della Belle Epoque ed il ciclismo era sofferenza estrema, polvere che avvelenava i polmoni, fango che raddoppiava la fatica. Petit Breton trionfò in due Tour de France, fu il primo corridore a conquistarlo per due volte di seguito. Morì in guerra, ferito in un assurdo incidente: era il 20 dicembre del 1917, si trovava in missione sulle Ardenne, venne travolto da un camion militare guidato da un ubriaco. Poche settimane prima era stato ucciso al fronte Anselme, il fratello minore, pure lui corridore. Per la Francia, quello di Alaphilippe è la quattordicesima vittoria francese (gli italiani ne contano 51, i belgi 20, da solo Eddy Merckx ne ha accumulate ben sette, quanto i tedeschi).

Perché scrivo che questa Sanremo è stata brutta? Perché non c’è stato il campione in grado di annichilire i rivali, o di produrre un’azione gagliarda come fece lo scorso anno il nostro Vincenzo Nibali. Segno di un livellamento generalizzato. Non a caso sul Poggio, l’ultima decisiva asperità – si fa per dire, 3700 metri di lunghezza con pendenza media del 3,7 per cento – c’erano tutti, ma proprio tutti. Gruppo compatto. I capitani davanti, i fidi scudieri accanto. Settanta a strattonarsi. Poi, la stanchezza ha filtrato il gruppo. Alaphilippe aveva saggiato gli avversari attaccando sul Poggio, ma il suo attacco era stato facilmente rintuzzato. Un allungo velleitario dell’italiano Matteo Trentin, a due chilometri dall’arrivo, provocava la repentina reazione di Peter Sagan (tre titoli mondiali), Michael Kwiatwoski, Alejandro Valverde, Wout Van Verte ed altri quattro corridori di buona reputazione, come per esempio l’australiano Simon Clarke, che nelle volate sa bene destregguarsi. Dietro, un ostinato Vincenzo Nibali riusciva ad accodarsi, chiaramente in apnea ma non alla frutta.

I tempi delle furibonde imprese alla Coppi, alla Bartali, o alla Merckx (mettiamoci pure uno straordinario Felice Gimondi nel 1974), sono purtroppo da dimenticare. Ormai la Sanremo si vince allo sprint o con pochi secondi di vantaggio, nonostante i suoi 291 chilometri di lunghezza. Conta la resistenza. La capacità di avere spunto dopo sei ore e mezzo a medie micidiali (quest’ultima, 43,625 km l’ora). Tutto si decide negli ultimi nove chilometri. In una corsa come la Sanremo, “ci vuole un po’ di testosterone in più”, come dice Romain Bardet, che studia all’università di Grenoble e sa come evitare certe volgarità alla Simeone o alla Ronaldo.

Resta un dato di fatto: l’ordine d’arrivo sontuoso. I primi rappresentano la crema del ciclismo attuale (Nibali, ottavo). Ma in questo ciclismo, il peso dell’Italia si è affievolito. Nessuna delle 18 squadre “World teams”, ossia la serie A internazionale, è italiana. Solo 51 dei 117 corridori professionisti italiani è a contratto in questa fascia d’élite, dispersi in 14 dei 18 World teams. Non ci sono i soldi necessari per competere a livello globale (una buona squadra costa almeno 20 milioni di Euro l’anno). La Francia ne ha due di squadre World. Come gli Stati Uniti, l’Olanda, l’Austria, e il Belgio. Ne hanno una la Spagna, la Gran Bretagna, l’Australia, la Polonia, il Sudafrica, il Bahrein e gli Emirati, i russi della Katusha (in tandem con l’Alpecin).

Il discorso è lungo e complesso. Ma la dice lunga sulle problematiche che stanno penalizzando il nostro ciclismo, tenuto in piedi da bravi corridori, da apprezzati tecnici – gli italiani sono in percentuale i più ingaggiati – e dagli organizzatori delle gare che spesso devono fare i conti con entrate sempre più risicate (si salva la Rcs patron del Giro, della Sanremo, del Giro di Lombardia, tra le corse più note ed amate).