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‘Viva l’Italia. Perché non siamo il malato d’Europa’. Il libro-inchiesta di Francesco Bonazzi sull’economia della paura

A meno di 100 giorni dal voto europeo esce per Chiarelettere un lavoro che smonta leggende sul declino dell'Italia, scava sotto le parole d’ordine dell’euroregime, e dà una picconata al pensiero unico di Bruxelles e Francoforte. Si chiama “Viva l’Italia” e in accordo con autore ed editore pubblichiamo un estratto

A meno di 100 giorni dal voto europeo esce un libro che smonta leggende sul declino dell’Italia, scava sotto le parole d’ordine dell’euroregime, e può dare una picconata micidiale al pensiero unico di Bruxelles e Francoforte. Si chiama “Viva l’Italia” (Chiarelettere, 16 euro in libreria, 9,99 come e-book). Sottotitolo: “Perché non siamo il malato d’Europa”. In 256 pagine il giornalista economico torinese Francesco Bonazzi riporta al lettore numeri, statistiche e contesti coi quali smuovere il pelo d’acqua del conformato vittimismo che vuole il Belpaese avviato sulla strada del declino e predestinato a un futuro da gregario, sotto il gioco dell’Europa dei “forti”.

Soppesando i “fondamentali” della quinta economia d’Europa, Bonazzi ricorda come nel pozzo nero delle apparenze si cade, certamente, ma si prende anche l’acqua. Che la paura stessa è uno stato d’animo personale, certo, ma “per crearla e alimentarla su larga scala servono gli allarmi”, come si legge nell’anticipazione in esclusiva di un estratto del volume (capitolo n.7), intitolato proprio “L’Economia della paura” (scarica).

“Dietro ogni allarme – rimarca l’autore – c’è puntualmente qualcuno che ci guadagna, sia che si parli di debito pubblico sia che si parli di ristrutturazioni industriali con migliaia di esuberi “necessari”. Ma l’Italia è davvero un paese sull’orlo del fallimento, il cattivo d’Europa, la prossima Grecia? Numeri alla mano, “Viva l’Italia!” spiega che non è così. L’Italia è un paese ricco, dove si vive mediamente bene e con una ricchezza liquida delle famiglie, per non parlare del patrimonio immobiliare, ben superiore al debito pubblico. I veri problemi non sono il rispetto dei parametri di Maastricht, ma la diseguaglianza e la povertà che aumentano, oltre a una secessione di fatto del Nord sempre più evidente e irreversibile. Su tutto questo, è convinto l’autore, l’appuntamento  delle europee di maggio può segnare una svolta.

“Non è vero che l’Europa è una cornice data, immutabile, che può solo mostrare il volto arcigno di un banchiere tedesco che ci da’ degli scrocconi, o di un tipo che vive fra le renne e ci spiega come si manda avanti la sesta economia del pianeta e la seconda manifattura d’Europa. Se Lega, M5s e sinistra vogliono davvero cambiare le cose, devono avere il coraggio di chiedere tre semplici cambiamenti. Il primo è avere aliquote fiscali uniche per smettere di subire il dumping sociale e fiscale all’interno perfino dell’Eurozona. Il secondo è ottenere una forma di garanzia europea dei debiti nazionali: moneta unica, garanzia unica ed eurobond. La terza riforma è scrivere chiaramente nei trattati che la Bce è prestatore di ultima istanza, perché di fronte alle prossime crisi non ci potrà essere sempre un san Mario Draghi che s’inventa il famoso “whatever it takes” e blocca la speculazione con un mezzo bluff”.

L’ECONOMIA DELLA PAURA
(Francesco Bonazzi)

Tutte le grandezze economiche e tutte le regole (dei trattati e di mercato) sono al contempo l’effetto e la causa di miliardi di comportamenti privati. Siamo abituati a pensare solo a poche relazioni, come quella tra reddito e consumi privati, o tra recessione, innovazione tecnologi- ca e posti di lavoro, ma questi sono poco più di giochi di prestigio. Ci hanno spiegato la legge della domanda e dell’offerta, ma la vita di ognuno di noi è scandita da un continuo martellamento, evidente o subliminale, che tende a invertire questa famosa legge, in modo che sia l’offerta a creare la domanda e non viceversa. Nelle aule universitarie si studiano gli effet- ti incrociati delle aspettative razionali, quelle che ci fanno passare con il verde o lasciare una mano di poker, ma poco si dice di quelle irrazionali, come i picchi di consumo di beni e servizi che scattano a seconda dell’eccitazione o della depressione dei singoli. Quante batterie di pentole o corsi di nuoto vengono acquistati in modo non meditato, ma quasi compulsivo? A quante prestazioni mediche, o anche soltanto a quanti acquisti di beni per la cura del corpo si rinuncia perché ci si sta lasciando andare e si è deciso che nulla serve a fermarne il declino?

David Foster Wallace, oltre a essere stato un discreto tennista e uno scrittore immenso, al termine della sua adolescenza ha conosciuto il delirio maniacale. Ma soprattutto ha conosciuto per il resto della vita la depressione e vi ha fatto i conti, prima di impiccarsi in casa a 46 anni, nel pieno della maturità artistica. Per DFW la depressione era, semplicemente, «la Cosa Brutta», «come una nausea completa, totale, assoluta», una nausea così capillare, così capace di toccare e coinvolgere ogni singola cellula da diventare «una cosa sola con noi».

Dal privato al pubblico: perché una lunga crisi finanziaria ed economica viene spesso chiamata allo stesso modo, «depressione», o addirittura «Grande depressione»? Non è un riferimento geografico, lo sappiamo. Perché quello che fino al giorno prima è stato un sistema con le sue regole che funzionavano quasi naturalmente – la sua ideologia, la sua dialettica, la sua organizzazione, il suo sorriso stampato sul volto dei vincenti e lo spasmo della fatica tagliato sulla faccia di chi vuol farcela a ogni costo – ecco, questo brulicare operoso di domanda, offerta e desideri, tutti rigorosamente, stolidamente quantificabili, impacchettabili e vendibili separati o in combinata o 3×2, si ferma all’improvviso come la ruota del criceto, ammutolisce come la sala di trading, mentre tutti i titoli della sedicente Borsa valori sono in picchiata e si scopre che questi famosi valori non valevano una moneta bucata e avrebbero dovuto essere scambiati in uno spazio chiamato “Borsa valori presenti”, visto che fin dall’inizio erano fondamentalmente soggetti in qualunque momento ai tasti Canc + Control.

A pensarci bene, anche «cancella e controlla» qualcosa vuol dire. Cancella e controlla è la miglior ricetta per uscire da una crisi e preparare la prossima. Cancella e controlla è il programma di un partito magari nuovo e di molte alleanze elettorali.

Ma perché bisogna chiamare con un termine medico, personale, disperatamente intimo, un fallimento del mercato? Perché appiccicare a fenomeni economici e finanziari definizioni che comprendono le parole «terrore», «isteria», «euforia», «depressione»? Si vuol forse avvertire l’investitore e il risparmiatore che il mercato è fondamentalmente isterico, anche se le curve dei tassi nel medio e lungo periodo non sempre lo lasciano presagire? Oppure che è un luogo dove si può esultare per una cedola ricca come dopo un gol, oppure subire violenze psicologiche, che in casi gravi possono anche condurre al suicidio delle persone più «deboli» e «fragili», almeno secondo la regola aurea che l’assente ha sempre torto e il morto neppure quello?

Quando si parla di debito pubblico, dell’inflazione in Germania e della disoccupazione in Italia, a volte si cita di sfuggita il meccanismo della colpa. Ma usare un termine psichiatrico come «depressione» per definire una recessione economica più profonda o violenta delle precedenti, quando i singoli invece non possono e non devono portare sul luogo di lavoro i propri disastri personali, è un semplice e anche smaccato meccanismo di colpevolizzazione subliminale. Il mercato crolla perché nessuno compra. Nessuno compra perché soffrono tutti di depressione, che notoriamente è un male oscuro, e non perché impoveriti da qualcuno o da qualcosa, che invece andrebbe indagato, e perché la bolla alla fine scoppia. Qualcuno però l’avrà pur gonfiata e ci avrà guadagnato.

Anzi, questo processo è un classico spostamento della colpa, speculare alla traslazione del rischio che si verifica stipulando una polizza assicurativa o una fideiussione. Si sposta la responsabilità di quanto accaduto, che di solito è in sostanza una gigantesca truffa a catena molto meno sofisticata di quanto si creda. Uno spostamento di responsabilità da chi ha creato e realizzato la frode a chi c’è caduto con tutte le scarpe e magari non ha letto la microclausola stampata a pagina 32 del contratto tra i minuscoli disclaimer. Forse perché ignorava che il mercato, finanziario e non, è fondato sulla libertà di disclaimer, ovvero su una catena diabolica di scarichi di responsabilità tale per cui, se l’emittente di un bond o il fabbricante di un tostapane elettrico hanno scritto da qualche parte che in determinate condizioni il loro prodotto può prendere fuoco, o bruciare tutto il capitale investito, loro si dichiarano esenti da qualunque responsabilità in base al principio del «Te l’avevo detto».

Per capire come funziona il trasferimento di colpa, basta pensare alle ultime grandi crisi bancarie. Il programma di gestione Canc + Control deve in sostanza isolare pochi truffatori dal ghigno particolarmente antipatico, o con patetica bava alla bocca mentre li processano, da dare in pasto all’opinione pubblica, un po’ come si è fatto con Calisto Tanzi per il fallimento della Parmalat e con Gianpiero Fiorani per lo scandalo della Popolare di Lodi, dimostrare che hanno provocato disastri miliardari da soli, o al massimo con la collaborazione di un callido ragioniere infedele, riuscire a far pagare il conto in buona parte allo Stato con la scusa che «la crisi è di sistema» e comunque «va evitato il contagio». Poi si devono sciogliere nell’acido le banche diventate impresentabili e i cui conti custodiscono anche i segreti della clientela di alto e altissimo livello, far sparire le finanziarie ormai impresentabili, cambiare nomi e ragioni sociali come un qualunque latitante e infine risarcire poco o nulla i truffati, evitando che si rivolgano ai tribunali facendo loro crede- re che tanto i tempi sono lunghi e ormai nessuno potrà risarcire più nessuno.

Per portare a compimento con successo tutte queste operazioni è naturalmente necessaria una massiccia opera di disinformazione, anche somministrando in quantità parole sbagliate o dal senso invertito («esuberi», «riconversione», write-off, ma anche il quasi meta- fisico «sofferenze» in luogo di «crediti marci», o «soldi prestati agli amici degli amici». E occorre anche una magistratura il più possibile pigra, o impreparata dal punto di vista tecnico e comunque, nel dubbio, senza mezzi e con gli avvocati degli imputati a fare le leggi in parlamento per cambiare i termini del processo a proprio piacimento.

La disinformazione, da un lato, serve a esorcizzare e contenere la rabbia e la frustrazione di chi ha perso la partita, dall’altro, a far piombare una fitta nebbia sull’ac- caduto. Una nebbia composta da tecnicismi e inglesi- smi spesso da truffatore di paese. Un brusio ininterrotto di diversivi e parole a vanvera, in dibattiti con toni da pollaio per lo svolgimento dei quali sono chiamati in servizio aggiuntivo, di preferenza, giornalisti che non hanno mai trovato una notizia in vita loro, politici che non hanno mai lavorato un giorno e opinionisti della domenica della più sfacciata incompetenza. Metti lo spread in bocca a Laura Castelli, il sottosegretario al Tesoro dei 5 Stelle diventato celebre per aver zittito il mite e dotto Padoan a colpi di «Questo lo dice lei!», oppure metti il digital divide in mano al forzitaliota Maurizio Gasparri, quello a cui hanno intestato una legge sulle telecomunicazioni che sembra scritta tra Yalta e Porta Portese, e ogni ragionamento che tende ad accertare o a comprendere l’accaduto finirà inevitabilmente in vacca.

Ma l’ultima, definitiva operazione di spostamento della colpa, quella che permette al carnefice di colpevolizzare la vittima secondo un meccanismo spiegato benissimo già negli anni Settanta dallo psicologo americano William Ryan, il quale contestava il tentativo di addossare le responsabilitaà delle condizioni economiche e sociali degli afroamericani a loro stessi,1 non andrebbe in porto se non si mischiasse con abilità il pubblico e il privato. Quello che noi non dobbiamo fare, perché non è di stile, ma che invece Lorsignori possono fare per venirci incontro e «spiegare» meglio le cose. Perché è nella relazione tra le debolezze dei singoli e l’avidità o la voglia di dominio di altri singoli, o di un apparato, che entra in gioco il potere. È il potere che lancia il ponte tra pubblico e privato e gioca su entrambi i tavoli, a seconda delle convenienze. È il potere che usa i corpi, quanto di più privato e personale si possa immaginare, e ne sfrutta la bellezza, il desiderio di migliorarsi, le fragilità, i bisogni per ven- dere non solo merci, ma «stili di vita», farmaci e psicofarmaci in quantità crescente. È da questa relazione, che ognuno può giudicare naturale o perversa, che nasce la giustificazione anche per il singolo cittadino, o consumatore, o utente, o investitore, che permette di legare i fallimenti di mercato ai fallimenti e agli stati d’animo individuali. Per una questione di elementare reciprocità.

Chi, in una crisi o in un fallimento, subisce un danno, alla fine deve essere portato a convincersi che è stata colpa sua. Com’è ovvio, non parliamo delle truffe da bar, in cui un investitore consegna dei fondi a qualcuno che gli promette interessi annui del 30 per

cento: in questo caso, quando salta il banco, evidente- mente è colpa della sua ignoranza o della sua mostruosa avidità. Ma vi sono persone in tutto il mondo che investono i risparmi di una vita e di un’intera famiglia in azioni di una solidissima banca popolare, magari in cambio di un fido migliore, come è successo alla Popolare di Vicenza dell’era di Gianni Zonin, o a Veneto Banca della gestione Vincenzo Consoli, e poi si ritrovano con i titoli che valgono letteralmente zero centesimi. Ebbene, che cosa accade in questi casi? Si tenta di far credere ai truffati e a tutto il resto degli italiani che la colpa è anche loro, perché quando vanno in banca non capiscono nulla di quello che firmano e che gli raccontano allo sportello. Oppure, come spiegò a chi scrive, a microfoni spenti, un magistrato accusato dai giornali di indagare con troppa lentezza su un crac finanziario: «Molti di questi che oggi vengono qui a denunciare in realtà sono evidenti evasori fiscali». E dicendolo sventolava la lettera di un calzolaio che ave- va perso quasi mezzo milione di euro. Come se rubare a un (probabile) evasore fosse legale. Però che colpo di genio, blame the victim e tirarla in lungo.

E forse non è un caso che Banca d’Italia, Associazione bancaria italiana e «Corriere della Sera» abbiano iniziato nel 2017 a tenere dei benemeriti corsi di educazione finanziaria, che di sicuro male non fanno, perché siamo un paese di ignoranti economici, ma che purtroppo contribuiscono a far passare l’idea, anche solo come messaggio subliminale, che alla fine la colpa non è tanto di Zonin, Consoli o della Banca d’Italia che li ha vezzeggiati e pettinati per vent’anni trattan- doli alla stregua di grandi banchieri, ma delle banche in generale come malefica entità astratta, e di quei contadinotti dei veneti che non sapevano leggere un profilo Mifid sui rischi.

Dopo aver bruciato qualche decina di miliardi pubblici e privati per le popolari venete, la Banca dell’Etruria, così cara alla famiglia dell’ex ministro Maria Elena Boschi, il Monte dei Paschi di Siena dei compagni di merende toscani e la Carige, sulla quale hanno regnato per anni il cardinale di Genova, il Pd e Forza Italia, ci si dimentica che una nazione senza banche regredisce di un paio di millenni. Eppure i cattivi banchieri non vengono rimandati a scuola e, in compenso, a scuola ci finiscono i risparmiatori per essere rieducati. Che è un po’ come se, dopo un’eccezionale catena di stupri, si prendessero tutte le ragazze e le donne di una certa città e le si istruisse su come devono vestirsi.