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Week end: il Cadore più minuto, dimenticando, per una volta, la star Cortina.

Qualche giorno in gennaio sulle Dolomiti, nel Cadore Veneto, senza ciaspole né sci e neve, vagabondando fra borghi e laghi ghiacciati. Con due tappe nel confinante Friuli e alla diga del Vajont per ricordare un lontano evento tragico.

Il 9 ottobre del 1963 un’enorme frana si stacca dai fianchi del monte Toc e precipita nel lago artificiale creato dalla diga del Vajont, nel comune di Erto e Casso tra le province di Belluno e Udine, realizzata qualche anno prima per la produzione di energia elettrica. Sono 260 milioni di metri cubi di roccia, un volume quasi triplo rispetto all’acqua contenuta nel lago. La frana piomba nell’acqua in un colpo solo, ad altissima velocità. Provoca un’onda alta cento metri di cinquanta milioni di metri cubi di acqua. Che salta la diga e si abbatte su Erto e Casso spazzandoli via. Poi si riversa nella valle del Piave e distrugge Longarone con le sue frazioni. Le vittime sono 1.910.

“Una catastrofe annunciata, una tragedia causata dall’uomo” si disse. Perché la frana del monte Toc aveva cominciato a scricchiolare, sinistra, molto prima di staccarsi. E forse si poteva fare qualcosa. Bastava svuotare la diga? O svuotare i paesi. A raccontarlo in questi anni sono stati  il film documentario “Vajont. Una tragedia italiana”. E poi “Vajont, la diga della vergogna” di Renzo Martinelli. E ancora il monologo “Vajont” di Marco Paolini. Così è nella memoria di tutti. Anche di quelli che non erano neppure nati allora. E di quelli che stanno in pianura, perfino. Così quando percorrendo la Statale 251 della Val Cellina verso Belluno e arrivati a Longarone si seguono le indicazioni per la Diga del Vajont ti tornano alla mente le immagini delle case distrutte, i paesi frantumati. In bianco e nero. Erano immagini in bianco e nero, e quindi ancora più drammatiche. Sassi disordinati scaraventati nei prati, tetti sfondati, i volti disperati di chi si era salvato per caso.

Attraversi il Piave, la strada sale, compie qualche curva e ti appare davanti quel muro curvo e grigio, che non è mai stato a colori, così solido da aver resistito all’onda, piantato dentro la gola per raccogliere l’acqua che avrebbe creato energia elettrica. E’ ancora lì, l’acqua non c’è più, e al posto dell’acqua le pietre del monte Toc che riempiono il vecchio bacino quasi completamente. Lasciando liberi una fetta di diga di una sessantina di metri sui 260 della sua altezza totale. E allora capisci cosa deve essere stato.

 

Sul bordo della strada che costeggia il parcheggio fino all’entrata della diga, una lunga fila di bandierine sistemate una vicino all’altra. Un lungo corteo silenzioso di cui non vedi la fine. Ogni bandierina un nome. Ogni nome un bambino. 500 bambini morti. Il Centro Informazioni del Parco Naturale delle Dolomiti Friulane organizza visite guidate ai luoghi del disastro. Si cammina in punta di piedi, ascoltando le parole della guida e realizzando la portata del disastro. E si sale anche sulla diga. Vento, freddo, silenzio, impotenza.

Quel che resta dei vecchi paesi di Erto e Casso, che sono due comunità separate che compongono lo stesso comune, distribuito sulle pendici opposte della frana, è poco più giù a valle. Tragicamente spopolato. A Erto le case erano di sassi. Qualcuna è stata ristrutturata, qualcuna è diventata un Bed and breakfast per i turisti, una locanda. Nelle vecchie strade si va solo a piedi. Le case che restano  per lo più hanno porte e finestre sprangate, con qualche vaso di fiori posato sui davanzali, qualche cartello con scritto vendesi o affittasi. Sui muri anche alcune scritte di denuncia per i responsabili della tragedia e anche qualcuna di speranza. A testimoniare il passato resiste l’Osteria del Gallo Cedrone, una locanda nata nel 1905 e sopravvissuta al tempo e alla tragedia. E’ ancora gestita da ertani, nella piccola piazza della Madonna dell’Acqua, stile montano, vecchie fotografie alle pareti. Nei piatti la tradizione, ragù di cinghiale, frico con polenta, salame all’aceto. Nella gente la cordialità e la simpatia della gente di montagna. Ci si può anche dormire.

Più in là oltre la parte della montagna da cui si è staccata la frana, un lungo e largo sfregio nel verde del monte, c’è Erto Nuova sorta per dare una casa a chi tornava a ripopolare la zona dopo una decina di anni dalla tragedia. Lo scrittore Mauro Corona, ertano e uomo del Vajont, scampato alla tragedia, abita qui. A fianco del Municipio,  si può persino andare a trovarlo nel suo studio. Il ricordo del Vajont termina a Longarone al Cimitero monumentale delle vittime della tragedia, un immenso giardino, un infinito prato verde, sul quale poggiano 1910 cippi marmorei bianchi, uno per ogni vittima della tragedia, a prescindere dal ritrovamento, dal riconoscimento o dal luogo di sepoltura.

E così il Cadore, magnifico pezzetto dell’Italia spettacolare delle montagna, comincia così, con la mestizia del Vajont. Invece della scenografia lustra e patinata di Cortina d’Ampezzo. La “perla delle Dolomiti”. Inevitabilmente splendida, certo, ma questo è un Cadore più intimo, un po’ in bianco e nero, appunto. Niente sfavillanti Hotel de la Poste, Cristallo, Grand Hotel Savoia e tutti gli altri che bordano il mitico lussureggiante corso Italia e dintorni. In questo Cadore minuto si va per  B&B e piccole locande sparse un po’ dappertutto, come i piccoli paesi sparsi un po’ dappertutto negli angoli più belli delle Dolomiti Friulane.

Venas di Cadore, per dire, lungo la strada Alemagna, venti minuti da Cortina. Costalta, il paese delle case e delle sculture di legno. Non ci sono alberghi qui, così si sono inventati l’”Albergo diffuso”, camere qua e là, casette. Si prenota sul sito (www.albergodiffusocostalta.it), si ritirano le chiavi  al Panificio Eicher Clere, dove si fa la prima colazione e si prendono le indicazioni per raggiungere una stanza da qualche parte, in una di quelle case di legno che fanno del paese “il paese delle case di legno”. In realtà di edifici tradizionali fatti con gli alberi della Ladinia dolomitica tagliati a travi squadrate e incastrate abilmente tra di loro, ne sono rimasti una trentina, salvati dalla inevitabile e arrembante sostituzione cementizia. Dal 2000, per dieci anni, ogni anno, sono state realizzate sculture in legno per ogni casa tradizionale lasciando che la fantasia della artisti raccontasse la storia del paese.

Cibiana non è lontano, con i suoi murales. E’ la street art che ha salvato dall’oblio la tradizione di un popolo. I tabià (le costruzioni in legno anche qui), i muri e i negozi sono affrescati con una sessantina di murales, realizzati a partire dagli anni ’80 con scene di vita di paese, ritratti e antichi mestieri, ma anche leggende di montagna. Opere semplici e commoventi. Dipinti di artisti giunti non solo dall’Italia ma anche dal Giappone e dall’ex URSS. Passeggiare attraverso le frazioni di Masariè, Cibiana di Sotto e Pianezze praticamente senza incontrare nessuno, o quasi, è incantevole. Posti congelati nel tempo, fermi a come dovevano essere all’inizio del secolo. Anche a Cibiana si sono organizzati con un altro esempio di albergo diffuso, che però qui si chiama “Ospitalità diffusa”. Insomma una piccola rete di imprese che offre servizi turistici diversi e aggiuntivi rispetto a quelli dell’alloggio in strutture ricettive alberghiere e complementari. Le chiavi dei piccoli appartamenti sparsi per il paese (che poi sarebero dieci per un totale di 40 posti letto) stavolta si ritirano al Taulà dei Bos, che sarebbe un ristorante ma loro preferiscono chiamarsi Officina Gastronomica perché sulla base della tradizione sperimentano, sperimentano…

E poi per avere uno squarcio di azzurro, oltre al cielo, c’è il lago di Misurina. 1.754 metri di quota, un diametro di 2,5 chilometri, d’inverno ghiaccia e si sbianca diventando un enorme campo giochi sullo sfondo delle Tre Cime di Lavaredo, il Sorapiss, i Codini e il Cristallo. Per un tratto in macchina poi con una passeggiata di una paio di chilometri (ma c’è anche una navetta) si va su alla Malga del Rin Bianco sulla strada che porta alla Tre Cime. Ci si va per il panorama, per mangiare gnocchi, canederli, sugo di capriolo, e per frugare nella Libreria della Montagna intitolata a Valerio Quinz storica guida di Misurina. Ancora una paio di chilometri tra le montagne e c’è un altro minuscolo lago ghiacciato, quello di Antorno con relativo ristorante (lo Chalet lago Antorno) e relativi piatti della tradizione.

Cosa manca? Calalzo e Pieve di Cadore. Da vedere a Calalzo è l’Oasi Naturalistica Archeologica di Làgole, ricca di sorgive, boschi e laghetti dove sono stati ritrovati centinaia di reperti di epoca preromana e romana. In inverno non ci si potrà immergere nel Lago delle Tose e nemmeno pranzare allo Chalet Lagole (chiuso) ma una passeggiata piacevole preparerà alla visita del Museo Archeologico Cadorino di Pieve di Cadore, il paese di Tiziano Vecellio, artista della pittura rinascimentale. Oltre ad una sua statua nella bellissima piazza centrale, è possibile visitare (in inverno solo su prenotazione) la sua casa natale. Al “Marc”, il museo archeologico, sono esposti manufatti dall’età preromana fino all’epoca tardoromana. Curiosità: a Pieve c’è il Museo dell’Occhiale con una raccolta di quasi quattromila pezzi, perché la storia degli occhiali parte proprio dal Cadore, dove nel 1878 nacque a Calalzo la prima fabbrica di montature, fondata da Angelo Frescura e Giovanni Lozza. E si sviluppò da una delle attività artigianali dei cadorini, cioè quella dei “pettenèr”, gli artigiani che facevano i pettini ricavandoli dalle ossa residue della lavorazione delle carni bovine. In seguito nacquero la Safilo, Ferrari, Persol, cioè i grandi marchi dell’occhialeria, oggi quotati in borsa, oltre alla Luxottica, colosso di Agordo. Cose che solo gli ottici sanno. E non tutti.

Si chiude con Vigo  di Cadore (ricco di bellezze artistiche, come la minuscola chiesa di Sant’Orsola, chiamata la “piccola cappella degli Scrovegni” per via degli affreschi trecenteschi) e Sappada Vecchia inserita da poco tra “i borghi più belli d’Italia” (le case di legno un tempo abitazione e stalla tutto insieme, la parte più antica del paese).

C’è anche una città, Belluno, la Belo donum, collina splendente, come l’avevano chiamata i celti, incantati dalla sua posizione nella Vallebelluna, circondata dalle Dolomiti. Ed è l’unico capoluogo italiano il cui territorio rientra in un parco nazionale. In un parcheggio degno di Los Angeles, il Lambioi, si lascia la macchina e ci si fa portare in piazza Duomo da un impianto di scale mobili panoramiche coperte da una struttura trasparente che sembra di essere a Tokyo. E in pochi minuti si passa dall’ipermoderno al Palazzo dei Rettori, esempio osannato di architettura del Rinascimento veneziano. E finisce qui il Cadore “minore”, con un tramonto dolce sulla valle del Piave.