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Crisi Russia-Ucraina, un incidente cercato da Kiev e preso a pretesto da Mosca

Marinai ucraini speronati, feriti, arrestati e processati per direttissima, rei confessi in videoclip di volontari sconfinamenti nelle acque territoriali russe. Scene e toni, da parte sia russa che ucraina, da propaganda comunista Anni Cinquanta. La scena del crimine: una ‘battaglia navale’ nelle acque dello stretto di Kerch, tra il Mar Nero e il Mare d’Azov, un mare chiuso tra lembi di costa di Crimea, Ucraina e Russia: la Guardia Costiera russa vi ha intercettato domenica 25 unità della Marina militare ucraina, ha aperto il fuoco – sei i militari colpiti -, le ha bloccate e sequestrate, ha fatto prigionieri gli equipaggi. Un incidente cercato da Kiev e preso a pretesto da Mosca per una prova di forza.

Dalla crisi in Crimea alla provocazione di Poroshenko

Dal 2014 la Crimea è alla ribalta internazionale, oggetto del desiderio di Mosca e del rimpianto di Kiev. Russa per storia, lingua, popolazione, ucraina dal 1954 per volontà di Nikita Krusciov – all’epoca, significava poco, perché era tutta Unione Sovietica -, la Crimea è stata riannessa alla Russia, dopo un contestato referendum a testimoniare la volontà popolare in tal senso.

Fu l’apice della crisi innescata dal rovesciamento del presidente ucraino Viktor Janucovich, filo-russo, che fece esplodere il conflitto – ancora in corso – nel Donbass e in altre regioni dell’Ucraina orientale, al confine con la Russia. Una vicenda complessa, che russi e ucraini raccontano con speculari falsità, tra esagerazioni ed omissioni.

Domenica 25, la tensione tra Mosca e Kiev, stabile con tendenza al cronico, è d’improvviso tornata a essere acuta; e, parallelamente, s’è riacceso il contrasto tra Russia e Occidente. Nathalie Tocci, direttore dello IAI, e Nona Mikhelidze, responsabile del programma Europa orientale e Eurasia dell’Istituto, constatano su AffarInternazionali.it che “il conflitto è entrato in una nuova fase” e si chiedono “che cosa c’è dietro questa escalation?, e come dovrebbe rispondere l’Unione europea?”.

Se si guarda al ‘cui prodest’, la provocazione appare ucraina: il presidente Petro Poroshenko, in difficoltà nei sondaggi a quattro mesi dalle elezioni del 31 marzo 2019, ha immediatamente firmato un decreto, prontamente ratificato dal Parlamento, per istituire la legge marziale, pur affermando di non voler la guerra – nessuno teme davvero che possa scoppiare, anche perché di fatto nel Donbass è sempre in corso.

La legge marziale, già in vigore in 10 regioni del Paese, consente, ora per un mese, di sigillare le frontiere, censurare i media, istituire il coprifuoco, obbligare al lavoro gratuito i dipendenti delle aziende strategiche, vietare ogni sciopero, manifestazione o presidio di protesta, liquidare formazioni politiche potenzialmente ostili e sospendere referendum ed elezioni. Forse non accadrà nulla di tutto ciò, ma potrebbe accadere.

Poroshenko può trarre i suoi vantaggi da quanto avvenuto. Il presidente russo Vladimir Putin, invece, si sarebbe probabilmente evitato tutta questa sceneggiata, anche se, una volta iniziata, vi ha contribuito: la tempistica, per lui e per la Russia, non è delle migliori. Nel fine settimana, Buenos Aires ospita il Vertice del G20 e diventa il crocevia di tutte le crisi internazionali: Putin ci arriva da uomo forte al comando e in controllo – un’immagine un po’ incrinata dall’impennata ucraina.

In questo contesto, il sussulto della crisi con l’Ucraina, non innescato dalla Russia, ma neppure smorzato, può pure apparire – o comunque, divenire – una sfida di Mosca ad americani ed europei: gli uni poco reattivi, gli altri subito inclini a rimodulare le sanzioni quasi fossero l’unico loro strumento di politica internazionale. Tocci e Mikhelidze pongono il problema se non sia il caso di ripensare il contesto giuridico del rinnovo delle sanzioni, nello specifico quelle imposte dopo l’abbattimento del volo MH17 nell’estate del 2014, prorogate di sei mesi in sei mesi – la prossima decisione è attesa al Vertice europeo di fine anno.

E l’Onu? La sua impotenza, in una crisi che coinvolge uno dei Paesi con diritto di veto, è nota. Il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov dice che non c’è bisogno di mediatori: Francia e Germania hanno già fatto da mallevadori degli accordi di Minsk del febbraio 2015, che sono un paralume del conflitto, e si sono ora offerti di nuovo; ma Mosca stavolta vuole fare da sola, sentendosi più forte di Kiev. Putin, questo, lo copia da Trump: perché il multilateralismo, se nell’uno contro uno vinci tu? Tanto più che la Nato e l’Ue sono sospette agli occhi russi: non piacciono a Mosca i progetti, non attuali, ma evocati, di adesione di Kiev all’Alleanza atlantica e all’Unione europea.

A Buenos Aires, il leader russo non avrà probabilmente bisogno di rifare il numero del 2014, quando lasciò in anticipo il Vertice del G20 di Brisbane in Australia – perché irritato da come veniva trattato – eravamo nel pieno della crisi ucraina. Ora, Putin può permettersi di gestire l’acuirsi della tensione che mette in forse un bilaterale, a margine del Vertice, con Trump.

L’oggetto del contendere

Al centro del braccio di ferro tra Russia e Ucraina c’è un fazzoletto di mare che per Kiev ha vitale importanza: il Mare d’Azov, chiuso tra la Crimea, il Donbass e la Russia. Per accedervi, c’è una sola via: lo Stretto di Kerch, che separa la Crimea dalla penisola di Taman, russa. Dopo l’annessione della Crimea – non riconosciuta, però, dalla comunità internazionale -, lo stretto è virtualmente divenuto tutto russo. Il controllo del Cremlino su quelle acque è poi divenuto totale ed effettivo con la costruzione del Ponte di Kerch, inaugurato quest’anno, presente Putin.

“Sono mesi – scrive sull’Ansa Giuseppe Agliastro – che i russi rafforzano la propria presenza militare nella zona e rallentano i commerci, fermando e ispezionando gran parte delle navi da o verso i porti ucraini sul Mare d’Azov. Da marzo, dopo che le guardie di frontiera ucraine sequestrarono un peschereccio crimeano, le autorità di Kiev denunciano il ‘blocco economico’ dei loro principali porti su quelle acque, Berdyansk e Mariupol. Non è un danno da poco perché il Donbass è il cuore pulsante dell’industria siderurgica e mineraria ucraina. Kiev teme, inoltre, che i separatisti del Donbass, sostenuti militarmente dal Cremlino, lancino un’offensiva proprio sulla costa ucraina sud-orientale, così da unire le zone sotto il loro controllo alla Russia da cui ricevono le armi e alla Crimea”.

Un’analisi avallata dall’ammiraglio Fabio Caffio, che su AffarInternazionali.it scriveva, prima dell’acuirsi della crisi: “Confermando una sua secolare politica di controllo dei mari adiacenti, la Russia prova a vietare l’accesso dell’Ucraina al Mare d’Azov, parte della disputa sulle acque della Crimea. Nello stesso tempo, Mosca intasca la conclusione di un accordo sulla spartizione del Mar Caspio che le garantisce buoni rapporti con l’Iran e la non interferenza di Paesi esterni al bacino. Benché fautrice del libero accesso al Mediterraneo per i suoi interessi in Siria, Mosca sceglie di arroccarsi nei propri mari orientali (Mar Nero compreso) con la non ostilità della Turchia”. Una strategia di successo e ben calibrata, almeno fino all’incidente del 25. Caffio l’aveva visto venire: “L’Ucraina – scriveva a settembre – è determinata a giocare fino alla fine la carta della disputa marittima, ma gli esiti sono incerti”.