Politica

Tiziano Renzi: ‘No paragoni con Di Maio sr. Non ho lavoratori in nero’. Ma la sua azienda fu condannata a risarcire un dipendente

Il padre dell'ex segretario del Pd, insieme alla Boschi e a tutto il partito, contro il genitore del leader M5s, accusato di aver tenuto in nero tre lavoratori nella sua azienda. Eppure nel 2011 una sua società è stata condannata a risarcire un nigeriano che aveva impiegato nel 2007 come co.co.co in una delle sue società, licenziato in tronco dopo aver preteso una retribuzione adeguata al posto di 750 euro al mese. In passato altre sue aziende erano state multate per non aver versato contributi Inps

Dopo Maria Elena Boschi e tutto il Pd, tocca a Tiziano Renzi scagliarsi contro Luigi di Maio e il caso, sollevato dalle Iene, dell’ex lavoratore al nero nell’azienda del padre del ministro del Lavoro. Su facebook, marca così la distanza: “Non ho capannoni abusivi, non ho dipendenti in nero, non dichiaro 88€ di tasse. Aggiungo che sono agli antipodi dall’esperienza politica missina”.  Dal recente passato di Renzi senior, però, emergono  storie di lavoro irregolare che rischiano di pareggiare il conto nella surreale disfida al padre peggiore ingaggiata dal Pd e dal M5s: uno sport che incendia la politica negli ultimi tempi.

Nel caso di Di Maio senior, pare fossero i muratori a lavorare in nero. Per Renzi senior sono gli “strilloni”, i venditori ambulanti di giornali ai semafori che sono stati business storico della famiglia dell’ex presidente del consiglio. A parlare sono le sentenze. Nel 2011 un’azienda del padre del futuro premier è stata condannata a risarcire un nigeriano che aveva impiegato nel 2007 come co.co.co in della società della galassia Renzi (Arturo Srl, poi liquidata) e licenziato in tronco quando aveva preteso una retribuzione adeguata al posto di miseri 750 euro al mese. 

La sentenza è stata emessa il 20 settembre 2011 dal Tribunale di Genova in favore di Evans Omoigui, oggi 45 anni, nigeriano di Benin City, che era in Italia dal 1996 e ora è tornato a vivere in Nigeria. Raggiunto dal Fatto, attacca la giustizia italiana e chiama ancora in causa “quel signore padre del premier” che gli deve ancora 90mila euro, in forza di una sentenza dello Stato. Perché? Perché proprio durante il dibattimento la società  veniva portata a liquidazione restando già allora – si legge nella sentenza – “contumace”.  “Altrettanto, forse qualcosa di più, spettava alla moglie di Evans, perché lavoravano insieme ma anche qui nessuno ha pagato”, dice Simona Nicatore, che ha assistito il nigeriano nel tentativo di recuperare le somme dovute.

Della storia di Evans si occupano le cronache di Genova il 9  febbraio 2013. L’edizione genovese di Repubblica scrive di “lavoro nero”. “Malato e truffato sale sulla gru” titola il quotidiano. L’occhiello spiega: “Vince la causa, ma il datore di lavoro non paga. E lui minaccia il suicidio”. L’imprenditore cui Repubblica fa riferimento, senza mai citarlo, è proprio Tiziano Renzi, padre del futuro premier che in quel momento è sindaco di Firenze. Nel 2015,  in  pieno Jobs Act, è Panorama a rispolverare la storia di lavoro nero che lascia un sapore amarissimo e – scopre oggi ilfatto.it- ha epilogo anche peggiore.

La Arturo nasce nel 2003 da Renzi senior, che ne detiene il 90 percento, il resto è nelle mani di sua sorella Tiziana. A Genova, all’inizio del 2007, la società organizza i venditori porta a porta del Secolo XIX. Il 7 febbraio 2007 Omoigui viene assunto come co.co.co. dalla Arturo a 750 euro al mese, per un anno. Nonostante gli accordi, viene mandato via due mesi dopo: il 13 aprile 2007 per aver chiesto la regolarizzazione del rapporto, un compenso adeguato e soldi per pagare la benzina. Nel dibattimento si chiarisce il motivo del benservito, legato alle richieste del collaboratore e di altri al seguito. Il giudice chiede a un teste quali fossero le condizioni di lavoro: “Da mezzanotte alle 6 del mattino, da lunedì a domenica. La paga era di 28 euro al giorno. E usavamo sempre la nostra macchina, senza alcun rimborso spese”.

La società è condannata nel 2011 dal tribunale di Genova a pagare 85.862 euro per il licenziamento illegittimo di Omoigui: “Privo della forma scritta, intimato oralmente, comporta l’assoluta inefficacia dello stesso”, scrive il giudice. Al nigeriano sono riconosciuti altri 3.947 euro per differenze retributive e mancati riposi. La sentenza viene confermata nel 2012 ma all’inizio del 2013, quando ancora aspetta quei 90mila euro che potrebbero raddrizzare la sua vita, gli dicono che il tempo è scaduto: un decreto di espulsione pende sulla sua testa e deve rimpatriare malato, disoccupato, raggirato, senza casa. E Omoigui non regge: il 9 febbraio 2013 si arrampica su una gru di 30 metri del porto antico e minaccia di buttarsi nel vuoto mentre continua a farfugliare confuso: “Il padre del sindaco di Firenze mi deve 90mila euro. Non ce la faccio più. Voglio morire”.

Solo dopo tre ore di panico e trattative Omoigui decide di scendere. La Questura prende a cuore il caso. Il nigeriano ottiene di rimanere in Italia per “motivi umanitari” ma ormai ha una vita in frantumi, vaga tra ospedali e cliniche mentre il risarcimento scomare del tutto grazie alla provvidenziale liquidazione della Arturo. Il vizietto del lavoro nero invece resta: nel 2013 la stessa Chil, la più nota delle aziende renziane, viene condannata dai giudici a risarcire 9mila euro ad altri ex distributori. Già nel 1998, del resto, Panorama scoprì che l’Inps dopo una serie di accertamenti multò la Chil per quasi 35 milioni (di vecchie lire) e la Speedy per quasi un milione per non aver pagato contributi, mentre i 500 e più “strilloni” impiegati  – scrive il giudice Giovanni Bronzini – avevano un rapporto di palese continuità, a fronte di contratti che definivano la prestazione come autonoma.

“La giustizia senza effetto non è giustizia”, ripete oggi Evans Omoigui dalla Nigeria, dove è tornato. Nel suo caso l’ingiustizia è doppia. Il 4 aprile 2017 è in un ospedale genovese per fare degli esami. Va in escandescenza per una questione di ticket e mentre i sanitari cercano di calmarlo qualcuno chiama la polizia. I medici vorrebbero intervenire secondo il loro protocollo, gli agenti agiscono come di fronte a un pericolo pubblico. Il risultato è una collutazione che provoca l’arresto e la condanna per lesioni a pubblico ufficiale. Toccherà poi al giudice di secondo grado riconoscere, sentiti i testimoni, che non c’era alcuna necessità di misure contenitive di polizia e che perfino il medico ha litigato con gli agenti che intimavano l’arresto contribuendo all’alterazione del soggetto. E che in sostanza l’uomo aveva reagito in assenza di dolo. Viene quindi assolto con formula piena il 7 giugno 2018. Proprio come per quella sentenza che dispone il risarcimento in conto Renzi, ormai se ne fa ben poco. Senza i soldi cui aveva diritto resterà in Nigeria. E da seimila chilometri di distanza, lo raggiunge beffarda la eco della doppia morale.

La sentenza su Omoigui Evans